C’è chi scrive per ottenere una casa, un lavoro, il riconoscimento di una pensione, la luce elettrica, una ‘spintarella’ per un provino in televisione. E c’è chi propone fantastiche invenzioni, come un propulsore che consentirà alla navi di navigare senza motori, o chi suggerisce di dedicare un monumento al ‘Lavoratore Ignoto’ e così omaggiare i nostri emigranti. E ancora chi lamenta la presenza di funzionari fascisti, mai epurati, nel consolato del Brasile.
Sono questi alcuni dei contenuti delle missive inviate dagli italiani di tutte le età ai vari Presidenti della Repubblica che compongono Lettera al Presidente, il documentario di Marco Santarelli prodotto da Madeleine e Istituto Luce Cinecittà con Rai Cinema, in concorso a Prospettive Doc al Festival di Roma.
Si tratta di un originale ritratto del rapporto che gli italiani hanno con l’Autorità, il “Capo” a cui si rivolgono come ultima possibilità per tentare di modificare il loro destino. Lettera al Presidente dal 10 novembre fino al 13 dicembre sarà visibile nella capitale al Nuovo Cinema Aquila, in attesa dell’uscita in DVD e poi su un canale RAI in una versione sforbiciata di 15 minuti.
Come nasce l’idea?
Tutto comincia nell’estate 2012 quando, dopo aver letto la recensione di “Ten Letters”, un libro di un giornalista americano costruito su alcune lettere di cittadini statunitensi a Obama e sulle risposte del Presidente, ho iniziato una ricerca nell’Archivio del Quirinale. Ho scoperto che in Italia c’è una consuetudine consolidata di scrivere al Capo dello Stato e così ho progettato di ricavarne un documentario storico. Del resto si trattava di materiale inedito, a cui nessun storico aveva attinto.
E il risultato finale quale è?
Un documentario che evidenzia come gli italiani vedono l’autorità massima del Paese, il rapporto che essi instaurano con il Capo. Ma è anche una microstoria di tribolazioni, di piccoli sogni e speranze.
Quante lettere ha visionato con la collaborazione della storica Teresa Bertilotti?
20mila e ci siamo fermati al 1969, data entro la quale, per questioni di privacy, è possibile rendere pubblici questi documenti. A disposizione c’era un materiale imponente, i presidenti della Repubblica più ‘cercati’ sono stati Sandro Pertini e Giovanni Gronchi.
Il documentario quante lettere propone?
Diciotto, secondo un percorso cronologico, e le loro storie mi hanno suggerito lo sviluppo visivo e fornito una sorta di sceneggiatura. Ho restituito allo spettaore il testo originale, anche con gli errori di ortografia, omettendo i nomi degli scriventi. Alla fine ci s’imbatte in una scrittura evocativa, di grande spontaneità e freschezza.
Il documentario è fatto anche di risposte da parte della Presidenza della Repubblica o di informative sul mittente.
Le risposte testimoniano la volontà di dare spesso una risposta anche se formale o burocratica, in fondo c’era comunque un’attenzione. Bene o male a tutti arrivava una piccola comunicazione. Ma, prima di rispondere, attraverso la prefettura venivano raccolte informazioni sul cittadino.
Come ha lavorato con i materiali di repertorio dell’Archivio Luce?
Ho cercato di immaginare lo sguardo, di chi allora scriveva, sulla società di quegli anni. Ho iniziato a scegliere immagini e sequenze svincolandole dal loro contenuto originario. Essendo stato un appassionato di home movies, un collezionista di 8 millimetri e super 8, ho voluto rendere questi materiali spontanei, non didascalici. Ciò è stato più semplice con i materiali non montati, rozzi degli anni ’50 conservati dal Luce, perché poi negli anni successivi sono invece strutturati dentro rubriche. Questo mi ha permesso di rendere ciascuna lettera più intima.
E quegli inserti di interviste alla gente su temi sociali e di costume allora caldi?
Si tratta di brani di inchieste Incom, ho alternato le voci fuori campo delle lettere con interviste fatte in strada da operatori del Luce. E’ anche una questione di ritmo: ho immaginato queste interviste come le facce e le voci dei vicini degli autori delle lettere. Ci sono poi, come raccordo didascalico tra un blocco di lettere e l’altro, le immagini dell’elezione dei Capi di stato presi in esame: De Nicola, Einaudi, Gonchi, Segni e Saragat.
Ultima fase creativa quella di dare ‘un’anima sonora’ al documentario.
Ho cercato innanzitutto di rispettare in qualche modo gli accenti regionali di chi scriveva e ho tenuto basso il tono perché le lettere fossero emotivamente comunicative. Non ho voluto le voci di professionisti del cinema e della televisione, ma ho ricercato voci il più possibile vicine alla vita di tutti i giorni: ragazzi che frequentano un laboratorio di teatro al Quarticciolo, parenti e amici.
Il documentario si chiude con un sogno…
Si apre con il sogno di un professore di Napoli che chiede di investire sull’istruzione e si chiude con il sogno di tre ragazzini che vorrebbero andare su Marte. Ho cercato tra le missive arrivate al Presidente Saragat un testo che potesse concludere questo viaggio nell’Italia di quegli anni. Ed è spuntata questa lettera di scritta nel 1969, anno dello sbarco dell’uomo sulla Luna, e pochi giorni prima dalla strage di piazza Fontana che aprirà una nuova stagione sociale e politica. Questa lettera mette così la parola fine al periodo della ricostruzione e della rinascita del nostro paese.
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