“I miei personaggi sono giovani sradicati, orfani del mondo. Sullo sfondo la città Torino, dove si fondono cibi e culture diverse, senegalesi, arabe, piemontesi…”. Torinese, Marco Ponti ha debuttato con Santa Maradona, interamente girato in presa diretta. E il film, uscito da sole due settimane, ha già incassato oltre 2 miliardi e mezzo, saltando dall’undicesimo al settimo posto in classifica. Nel solo fine settimana il botteghino delle 106 sale nazionali che lo proiettano ha registrato un totale di 860 milioni.
Ponti, il suo montaggio segue tempi spezzati: da una parte immagini accelerate di Torino, dall’altra un tempo sospeso, scandito dai ritmi della conversazione.
La storia si sviluppa come se fosse Andrea/Stefano Accorsi, uno dei due protagonisti maschili, a raccontarcela. Una narrazione non lineare, giustificata dal fatto che nel ricordo ci si perde, si va avanti e si torna indietro. L’idea è quella di restituire una soggettività del racconto. Così quando Andrea guarda, affascinato, parlare Dolores/Anita Caprioli, lo sguardo si sofferma su particolari, non c’è una visione oggettiva d’insieme.
E il ruolo di Bart/Libero De Rienzo?
E’ il personaggio tragicomico della situazione. Un Mercuzio shakespeariano, una coscienza amica del protagonista, che agisce perché lo stesso Andrea vada fuori ad affrontare il mondo, perché lavori e ami. Bart ha una grande consapevolezza, è affettuoso, ma anche nichilista e autoditruttivo, quindi mette sempre l’altro davanti a sé. Lui è il vero personaggio triste. Bart è attratto da Lucia/Mandala Tayde, eppure la tratta malissimo. Il suo è un atteggiamento superficiale, dietro il quale si nasconde un vero rispetto.
Per la fotografia hai lavorato con Marcello Montarsi.
Marcello è in gamba. Ogni domenica facevamo il piano delle inquadrature. Abbiamo visto molti film insieme: Pierrot le fou di Godard, dal punto di vista cromatico, ci ha influenzato molto. E poi i film di Wong Kar Wai, (In the mood for love e Happy together). Anche un lavoro dello stesso Marcello, l’episodio di Il tempo dell’amore di Campiotti.
Tante le polemiche, soprattutto dopo il Premio Solinas, sulla preparazione inadeguata al mestiere dello sceneggiatore. Lei, che insegna sceneggiatura alla scuola Holden di Torino, quale idea si è fatto?
In Italia lo sceneggiatore spesso finisce per essere una figura di transizione verso il lavoro del regista-autore, ma il concetto di autore è una stupidaggine. In un set tutti sono coautori: gli attori, il direttore della fotografia. Allora l’autorialità è solo un modo per far finta di possedere il controllo assoluto del progetto. E’ necessario invece che si restituisca la dignità al mestiere di sceneggiatore.
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