Marco Muller


Un caso importante del nuovo panorama produttivo italiano, braccio cosmopolita di casa Benetton che, all’inizio articolato anche da Oliviero Toscani, ora è guidato da Muller, ex direttore dei Festival di Pesaro, Rotterdam, Locarno.
Fabrica Cinema presenta alla Mostra in concorso per Venezia 58 Il voto è segreto dell’iraniano Babak Payami, forte di un pedigrée che vede nei 5 anni di laboratorio, una messe di premi e riconoscimenti ottenuti dai suoi prodotti realizzati da autori asiatici, europei e sudamericani nei più importanti festival (fra gli ultimi Moloch, 17 anni, Lavagne, Il cerchio, No man’s land).

Muller, partendo da Fabrica e da altre situazioni interculturali, come si determina la nazionalità di un film?
E’ superato il concetto di coproduzione vecchio stampo con mere quote compartecipative e pudding artistico-tecnico. In Francia godono da 20 anni di chiare leggi di assistenza finanziaria statale e da almeno 10, con Canal Plus, mettono il marchio a film realizzati in Asia, Sudamerica, Africa. E guarda caso ora certi produttori francesi sono gelosi che dall’Italia si vada per il mondo a scovare progetti utilizzando trucchi e segreti ‘parigini’. Una novità degli ultimi anni è nel fatto che una parte del nostro cinema nasce insieme alle idee dei registi, i produttori non sono più soltanto meri strumenti ‘cercasoldi’ o di quote finanziarie. Altro aspetto determinante: il nostro legame è tale con gli autori che attraverso scontri fondamentali, le loro scelte artistiche dobbiamo capirle innanzitutto noi produttori, altrimenti sarà il pubblico a non comprenderle. Come è accaduto per Il voto è segreto dell’iraniano Payami, la cui vita si è concretata dopo le riprese negli ottimi e ospitali laboratori di Cinecittà, ove abbiamo visionato i ciak giornalieri, montato, lavorato al sonoro e alla colonna sonora dell’italoamericano Michael Galasso che non ha fatto scelte etniche ma di proficuo scambio ispirativo con l’Iran e Payami. Con tutte queste caratteristiche del film, a chi mi chiede perché Il voto è segreto non sia un film comunque italiano – coproduce anche Raicinema – io non so più cosa rispondere. E’ per l’Italia ancora un problema di etichette e leggi. Al festival di Cannes ormai, tanto per tornare in Francia, neanche ufficializzano più la nazionalità dei film.

Insistiamo: come vede la situazione della anomala fabbrica di eterogenei prototipi che da 2-3 anni, come testimoniato in questi giorni di Mostra dagli Incontri “Il gioco del cinema”, è il fulcro della produttività italiana di nuova generazione?
Noi di Fabrica Cinema abbiamo una certa visibilità per ovvie ragioni trans-cinematografiche e con certi accordi riusciamo ad andare avanti bene, ma per altri produttori spesso ogni volta è una scommessa. E’ comunque evidente il fattivo e qualitativo nuovo policentrismo della produzione italiana. Grazie a rabdomanti coraggiosi come Amedeo Pagani che lavora col greco Angelopulos, in Argentina non solo con Bechis, e di recente a Taiwan con Hou-Hsiao Hsien, come Riccardo Tozzi di Cattleya che fa fare a un regista serbo, Paskaljevic, un film che è qui in concorso girato in Irlanda ma tratto da un racconto cinese, come Domenico Procacci che lavora col macedone Manchevski e da anni collabora con autori australiani, e Tilde Corsi per l’israeliano Gitai. E ce n’è altri su questa strada. Tutti disposti a passioni, rischio, ricerca, alleanze vere e motivate, produttori in cerca di traghettatori transculturali. In questa nuova zona di operazioni noi di Fabrica Cinema non ci sentiamo certo soli, in Italia.

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06 Settembre 2001

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