“Andrà ai David e gareggerà con Baarìa!”, dice entusiasta il regista Marco Chiarini del suo esordio L’uomo fiammifero, candidato ai David di Donatello per i migliori effetti speciali visivi (a opera di Ermanno Di Nicola) al fianco del capolavoro di Tornatore e altri pezzi da novanta del calibro di Vincere, La prima cosa bella e L’uomo che verrà .
In più, Chiarini è in lizza nella categoria miglior regista esordiente, per cui il suo orgoglio è pienamente giustificato. “Ci devi credere” e “Qualità oro”: due frasi presenti nel film che si prestano bene a raccontarne la storia produttiva.
“Pensare che ho cominciato da zero – aggiunge il regista – dopo il CSC avevo voglia di applicarmi al mio primo lavoro “serio”, ma nessuno mi avrebbe dato credito, perché ero uno sconosciuto. Nemmeno mia madre mi avrebbe prestato i soldi per fare un film, figuriamoci un produttore. Ho capito che dovevo inventarmi un altro metodo, così ho pensato di pubblicare in un libro gli acquerelli che avevo realizzato per pre-visualizzare il prodotto. Ho venduto il libro a 15 euro e le tavole originali a 1.000″.
Così inizia l’avventura del regista teramano, che abbiamo incontrato a margine dell’incontro tenuto con gli studenti dell’Accademia del Cinema e della Tv – ACT Multimedia di Cinecittà.
L’uomo fiammifero, fantasy “per gli adulti accompagnati dai bambini”, ha spopolato a Giffoni, è stato giudicato Miglior Film al BAFF, ha vinto il premio della giuria al Cairo Children Film Festival, e si appresta ora a conquistare il “resto del mondo” grazie anche all’originale metodo distributivo, denominato social distribution, che vede coinvolti comuni cittadini che propongono direttamente il film agli esercenti, ricevendo in cambio una parte d’incassi.
Ci racconti la sua esperienza. Quanta arte e quanto business c’è nel mondo del cinema?
Ho imparato davvero qual è il ruolo del regista lavorando in produzione. A parte la connotazione artistica, si tratta soprattutto di portare a casa un prodotto che funziona. Così, dopo un po’ di rifiuti delle mie proposte da parte delle produzioni, sono andato ad Amsterdam dal mio amico Giovanni De Feo e abbiamo buttato giù la miglior storia possibile, pensando già di realizzarla con un basso budget.
Vendendo i disegni e il libro, in capo a tre mesi, ero arrivato a circa 20.000 euro. Avevamo organizzato un battage a tappeto, in ogni libreria, come se Teramo fosse New York. La cifra era bassina per realizzare un film, ma un miracolo se pensiamo che eravamo partiti completamente da zero. Potevo permettermi 23 giorni di riprese, non uno di più. Mi ha confortato però scoprire che Kubrick ha girato Rapina a mano armata in 21 giorni e Tarantino Le Iene in poco più di tre settimane. E siamo partiti, senza orari, mattina e sera. La troupe aveva le spese pagate ma nessun compenso, se non la percentuale del guadagno che sarebbe venuto in futuro dall’incasso del film. Qualcuno ha anche investito soldi suoi, piccole cifre, 1.000, 1.500 euro. Abbiamo fatto i Cirenei, abbiamo portato la nostra croce fino al successo di Giffoni.
La storia come nasce?
Ci ho messo i personaggi della mia infanzia. Tutti gli amici immaginari di Simone, il bambino protagonista, sono ispirati a persone che conoscevo davvero. De Feo tra l’altro è un esperto del linguaggio dell’immaginario nel cinema. La sua tesi di laurea riguardava proprio questo, il passaggio dal reale al fantastico nei film, un po’ come in Creature del Cielo di Peter Jackson. Ci ho aggiunto il rapporto padre figlio, a cui tenevo molto.
Il papà, burbero ma buono, è interpretato da Francesco Pannofino…
Sì, all’inizio si era interessato al ruolo Francesco Salvi, ma poi non se ne è fatto più nulla. A Pannofino, che ai tempi non era ancora famosissimo, ho semplicemente mandato il materiale e lui se n’è innamorato.
Quanto tempo c’è voluto per realizzare il film?
Ho iniziato nel 2005 ed esordito a Giffoni nel 2009. Quattro anni sembrano tanti, lo so, ma è come costruire una casa. Se hai molti soldi da investire chiami una squadra di 25 operai e in tre mesi hai chiuso. Ma se devi fare tutto da solo, cercare i materiali, dipingere i muri, i tempi si dilatano. Noi abbiamo lavorato nel tempo libero, nei fine settimana, nei giorni di festa, facendo parallelamente altre cose. Gli effetti speciali sono stati ultimati un lunedì di Pasqua. Anche a Giffoni ci siamo arrivati con l’acqua alla gola, ma alla fine è andato tutto bene.
Com’è andata sul set?
Il meccanismo è sempre lo stesso. Se le cose funzionano, è merito di tutti. Se vanno male, è colpa del regista. Al terzo errore, hai già perso completamente credibilità. Io ho avuto problemi perché nei primi giorni, sapendo già che non avevo molto tempo a disposizione, ho cominciato a girare le cose in maniera “strana”. Non volevo ad esempio che i bambini conoscessero il copione, o avrei perso la spontaneità e tutto sarebbe parso un’orribile fiction. Anche la scazzottata l’ho girata dall’alto e con un carrello. So che è grammaticalmente un errore, ci vorrebbero tagli, controcampi e dettagli. Ma io non avevo tempo e sapevo già che avrei risolto la cosa in un altro modo…
Ovvero con le scene d’animazione. Le ha pensate così dall’inizio?
Sapevo che le avrei messe, ma non quale tecnica utilizzare. Alla fine abbiamo scelto il passo-uno, la più semplice. Oggi, non saprei immaginarle diverse.
Ha apportato modifiche rispetto alle prime stesure della sceneggiatura?
Sì. Ho dovuto ridoppiare l’intero film, anche perché nel frattempo Marco Leonzi, il bambino protagonista, era cresciuto e aveva cambiato voce, per cui non poteva registrare le parti fuori campo in maniera credibile. E ho colto l’occasione per modificare qualche linea di dialogo, per rendere tutto più coerente. E poi il finale. Sono stato attentissimo ai dettagli in fase di scrittura. Con le storie per bambini bisogna stare attenti: non si sgarra, loro si accorgono di tutto.
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