Marco Campogiani: una commedia amara sul dopo 11 settembre


TORINO. “Il mio film con ironia e una certa leggerezza pone delle domande e dei dubbi piuttosto che delle risposte o una riconciliazione finale”. L’esordiente Marco Campogiani firma La cosa giusta commedia amara presente nella sezione Festa mobile del TFF, coprodotta da Rai Cinema e distribuita il 27 novembre da Cinecittà Luce, con un prologo torinese il 23.

Chi è veramente Khalid, liberato dopo mesi in carcere e impersonato da Ahmed Hafiene, il simpatico e bravo attore tunisino al suo quinto film in Italia. Un terrorista o un immigrato vittima di un errore giudiziario nel clima post 11 settembre? A Torino due poliziotti hanno prima il compito di pedinarlo nei suoi spostamenti, poi di proteggerlo a causa di alcune minacce. Eugenio (Paolo Briguglia) è un giovane istruito, ambizioso, un po’ idealista e soprattutto agli inizi della carriera. Duccio (Ennio Fantastichini) è il poliziotto anziano, scafato e cinico, che si fida solo della sua lunga esperienza pratica.
Benché diversi se non opposti per carattere e convinzioni finiranno per capirsi e per conoscere meglio il sospettato Khalid, tanto da essere invitati a cena casa sua. L’amicizia sembra essere il passo successivo…
Ne La cosa giusta c’è anche un cameo del filosofo Gianni Vattimo nei panni di un avvocato impegnato a difendere gli immigrati e un altro dello scrittore iracheno Yanis Tawfik, (l’autore libro da cui è stato tratto La straniera visto sempre al TFF) nel ruolo di un insegnante di arabo ai poliziotti.

Come nasce il suo film?
Ho preso lo spunto da un fatto di cronaca giudiziaria avvenuto nel 2005. Un immigrato marocchino, dopo essere stato incarcerato due anni prima con l’accusa di complicità con il terrorismo, viene liberato su richiesta della magistratura. Da quel momento vive a Reggio Emilia e gli viene assegnata una scorta, e nel processo tenutosi a dicembre 2005 è assolto dal reato. Due giorni dopo questa sentenza che lo scagiona, il marocchino è espulso dall’Italia, il ministero dell’Interno lo ritiene infatti comunque sospetto di terrorismo.

Dunque una storia vera e dura.
Sì, ma ho evitato il film di denuncia. Il tono che ho privilegiato è quello ironico con situazioni paradossali come quella di Khalid il sospetto terrorista che comunica i suoi movimenti ai due poliziotti che dovrebbero pedinarlo di nascosto.

Ha scelto il registro della commedia?

All’inizio il film, affrontando una vicenda di cronaca, si presenta come un poliziesco. L’intenzione pare quella di scoprire se Khalid sia colpevole o no. Poi la situazione si ribalta con la scoperta di una persona come tante altre e con il rapporto con e tra i due poliziotti. Il tono diventa quello della commedia amara. Penso a film come Una vita difficile, Il federale che, senza fare sociologia, parlano con amarezza e sorriso di cose autentiche, di incontri veri tra persone diverse.

Torna anche nel suo film il rapporto tra noi e ‘l’altro’, il ‘diverso’?
Preferisco parlare di individualità che s’incontrano, perché anche i due poliziotti in fondo si sentono estranei nel loro rapporto. In scena ci sono tre uomini sradicati che s’incontrano secondo geometrie variabili, tant’è che si creano tra loro delle alleanze provvisorie. Tutti e tre i protagonisti rivendicano la propria onestà: Duccio come esperienza e conoscenza del mondo; Eugenio come integrità morale; Khalid come bisogno di giustizia.

Ha scelto un finale aperto, resta il dubbio che quell’immigrato dai modi gentili sia o no un terrorista.
Probabilmente non lo è, ma non ho voluto un finale conciliante, ma spaesante. Khalid non è solo vittima, è un uomo comunque con le sue idee rispetto ai suoi fratelli mediorientali che combattono nel loro paese.
In fondo a vivere l’incertezza di questo finale è Eugenio il poliziotto giovane che aveva provato a rapportarsi da subito con quel mondo. Una cosa giusta comunque l’ha fatta. Quella di capire e comprendere andando oltre l’ovvio e i confini prestabiliti.

autore
17 Novembre 2009

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