Marco Bellocchio: Nel nome del Leone


VENEZIA – “Sono molto cambiato e lo rivendico”. Parola del Leone alla carriera Marco Bellocchio, che ha ricevuto il premio dalle mani di Bernardo Bertolucci in una cerimonia dove l’ironia si è sovrapposta alla commozione con la Sala Grande tutta in piedi ad applaudire. Eppure c’è un filo rosso che collega Nel nome del padre, il film che il regista ha scelto per festeggiare questo Leone e Bella addormentata, il progetto a cui sta lavorando, ispirato alla drammatica vicenda di Eluana Englaro. Quel filo rosso è la critica al clericalismo della società italiana. Che in quel film del 1971, ora tagliato di circa venti minuti grazie al forte impegno di Cinecittà Luce – la società si occuperà anche di riportarlo nelle sale con una serie di eventi mirati – si esprimeva con ferocia giovanile nel raccontare, nei giorni della morte di Pio XII, la vita di un collegio retto da preti e messo a soqquadro dall’arrivo del ricco e anticonformista Angelo Transeunti, sfrontato, imbevuto delle idee di Nietzsche, iconoclasta. Oggi quella critica si esprime con una voce più pacata, ma certo non meno tagliente, come dimostra ad esempio L’ora di religione. E come mostrerà certo il nuovo progetto, che unisce tre storie all’ombra dell’agonia di Eluana e del tentativo di tenerla in vita per legge. “Mi sento un non riconciliato come sempre, ma oggi nutro verso la rabbia una certa diffidenza”, dice ancora Bellocchio. Che a Bertolucci ha regalato un suo disegno ispirato ai Pagliacci di Leoncavallo. Dopo la cerimonia, cena e festa sulla spiaggia dell’Excelsior organizzata da Cinecittà Luce, Cinecittà Studios e Telecom Italia.

 

“Nel nome del padre” arrivò a Venezia nel ’72, non nella selezione ufficiale ma nel controfestival.

La Mostra era allora diretta da Rondi, io arrivai con la pellicola del mio film sotto il braccio per proiettarlo nell’antifestival organizzato dall’Anac, che allora era estremamente combattivo e radicale. Il produttore Franco Cristaldi, che voleva essere al festival, ma dall’altra parte, si oppose fortemente, anche se devo dire che mi aveva permesso di realizzare il film in grande libertà, dopo il successo de I pugni in tasca. Poi però fu distribuito abbastanza male da Italnoleggio, perché avversato dalla componente democristiana della società, mentre i socialisti erano favorevoli.

 

Come considera questo Leone alla carriera?

Sarei pazzo, più che irriconoscente, a non esserne soddisfatto. Mi sembra il riconoscimento a una carriera in cui ho cercato di essere fedele alle mie immagini. Anche se sono molto cambiato e lo rivendico, oggi sono diventato molto più tollerante.

 

Cosa avete in comune lei e Bernardo Bertolucci?

Tante cose, ma tra noi ci sono anche tante differenze. Siamo quasi coetanei e quando arrivammo a Roma avevamo amici in comune come Laura Betti, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia: quelle persone che ci permisero di entrare nel mondo del cinema arrivando dalla provincia. Siamo invece diversi per sensibilità, per le immagini che facciamo. Oggi lo sento misteriosamente vicino, negli anni ’70 c’era una rivalità e da parte mia anche invidia. Lui aveva un grande successo internazionale, con Ultimo tango a Parigi, mentre io restavo in Italia.

 

Pensa che avrebbe dovuto vincere il Leone con “Buongiorno, notte” o la Palma con “Vincere”?

Non ho risentimenti. Quei film hanno fatto la loro strada, con o senza premi. Non mi pongo come un rivoluzionario, ma certo il potere non mi piace ed è logico che mi ripaghi con la stessa moneta.

 

Perché ha scelto “Nel nome del padre” per questa festa?

Perché in questi quarant’anni mi è tornato in mente a intervalli vari, anche lunghissimi, l’idea che non avesse ancora trovato la sua forma definitiva. Ed è l’unico mio film su cui avevo questo conto in sospeso. Sentivo che poteva essere rielaborato, in particolare che c’erano delle cose ideologicamente un po’ soffocanti. Chi vede questa nuova versione è come se lo vedesse per la prima volta, anche se il senso del film è rimasto assolutamente uguale con la sua disperata provocazione.

 

Ha messo da parte il progetto sul premier.

Con Italia mia pensavo a un burlesque sul presidente del consiglio ma è un film costoso e i produttori si sono ritirati. E poi forse è una vicenda che ha bisogno di distacco per essere raccontata. Così sono tornato su Bella addormetata, trovando l’appoggio produttivo di Tozzi.

 

“Bella addormentata” si concentra sul caso di Eluana Englaro, un caso che ha radicalizzato il contrasto sempre presente nella cultura italiana tra mondo cattolico e laici.

La vicenda si colloca nei giorni del febbraio 2009, mentre le Camere cercavano di varare la legge che potesse bloccare la sentenza con una corsa contro il tempo… Poi la sera del 9 arrivò la notizia della morte di Eluana. Quella vicenda sarà restituita con immagini di repertorio, la televisione sarà molto protagonista, mentre il film si concentrerà su altri personaggi con tre storie: un ex socialista diventato berlusconiano in crisi con la figlia, l’amore contrastato alla Romeo e Giulietta tra una cattolica e un laico, la lotta tra un medico e un’eroinomane all’ultimo stadio, che è anche lei quasi morta, ma che potrebbe tornare alla vita.

 

Si è confrontato con Beppino Englaro?

Sì, lo stimo enormemente e anche lui si fida di questo progetto e di me. Certamente gli chiederò consigli, ma non è un personaggio del film.

 

Cosa l’ha affascinata in questa vicenda?

Tocca i grandi temi della vita e della morte. E’ una storia fatta di contrapposizioni molto forti e parla dell’Italia. 
Mi colpì subito ciò che accadde i quei giorni: la corsa del Pdl a fare la legge sul fine vita anche solo per dare un segnale alla Chiesa cattolica, il dibattito tanto acceso che arrivò allo scontro fisico in Senato, la puntata di Porta a porta quando Eluana morì per l’interruzione della nutrizione forzata con le grida del senatore Pdl Quagliariello che diceva “Eluana non è morta, è stata ammazzata”, tra la commozione di Bruno Vespa.

 

Cosa direbbe ai giovani che vogliono iniziare a fare cinema oggi?

Mi dispiace quando i giovanissimi imitano i padri e fanno una brutta copia di Risi e Monicelli, che poi queste commedie sono necessariamente più brutte di quei modelli. La tecnologia leggera dovrebbe andare invece di pari passo con una scapigliatura dell’immaginazione.

 

 

 

autore
09 Settembre 2011

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