TORINO. Nella giornata in cui il Papa ha incontrato nella cappella Sistina 250 personalità del mondo dell’arte e della cultura – l’ultimo incontro l’aveva voluto Papa Paolo VI 45 anni fa – il regista Marco Bellocchio ha preferito non andare in Vaticano ed essere al Torino Film Festival per un confronto con il pubblico nell’ambito della sezione ‘Figli e amanti’.
“Ringrazio il Vaticano per l’invito, mi ha fatto piacere riceverlo, ma mi sono anche ricordato che Ernesto Picciafuoco, il protagonista del mio film L’ora di religione, decide di non andare in visita dal Papa come richiestogli e preferisce accompagnare suo figlio a scuola. Non giudico gli altri – spiega Bellocchio – avrei detto sì a un’occasione di dialogo con un rappresentante della Chiesa. Per me la coerenza è fondamentale e io non sono d’accordo che l’aborto sia ritenuto un assassinio o che il crocefisso debba incombere nelle aule. Preferisco allora starmene in disparte, so che anche Andrea Camilleri, che è stato mio professore, non è andato”.
C’è andato invece Picciafuoco o meglio Sergio Castellitto che ha letto un brano della ‘Lettera agli artisti’ scritta nel 1999 da Giovanni Paolo II. E con lui c’era una nutrita rappresentanza del mondo del cinema nella Cappella Sistina: Giuseppe Tornatore, i fratelli Taviani, Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Franco Zeffirelli, Pupi Avati, Dante Ferretti, Francesca lo Schiavo, Gabriella Pescucci, Liliana Cavani, Terence Hill, Peter Greenaway, Monica Guerritore, Raoul Bova, Caterina D’Amico e Samuel Maoz, Leone d’oro quest’anno a Venezia per Lebanon.
Bellocchio ha abbandonato il progetto di un film sul caso di Eluana Englaro?
E’ un dramma in cui la società italiana ha scoperto molte maschere. Per ora l’ho messo da parte, sto facendo altro. E poi la partenza di un film per me coincide con la presenza forte di immagini, non mi è sufficiente il messaggio. Mi ha commosso la vicenda di papà Englaro, un eroe laico con questa sua idea di rispetto della giustizia, che non accetta l’ipocrisia dell’eutanasia fatta di nascosto, come talvolta avviene, ma chiede che la legge gli riconosca il suo diritto.
E’ rimasta nel film l’idea di due storie?
Questa costrizione che obbliga una persona che vegeta a vivere sperando in un miracolo, me ne suggerisce un’altra di segno opposto. Quella di un medico, di uno psichiatra che lotta con tenacia perché un tossicodipendente, un’anoressica o un aspirante suicida amino la vita.
Sarà lei a curare la messinscena teatrale del suo film “I pugni in tasca”?
No, la regia è di Stefania De Santis che ha già lavorato con me. Gli attori saranno Ambra Angiolini, che aveva fatto un buon provino per Vincere, e mio figlio Pier Giorgio. Mi occuperò di fare delle correzioni al testo, ma non si tratta di attualizzarlo perché la vicenda familiare, fatta di follia e infelicità, comunque prescinde dal contorno sessantottino in cui molti l’hanno collocata.
“Vincere” uscirà ora in Francia e a febbraio negli Usa dove lei l’ha accompagnato in alcuni festival.
Ha avuto un’accoglienza molto positiva, mai un mio film era stato richiesto in così tanti festival d’oltreoceano: Chicago, Los Angeles, New York, Philadelphia e Telluride. C’è un grande interesse verso l’opera dovuto forse anche alle nostre attuali vicende politiche. La storia privata di Ida Dalser viene talvolta letta all’estero come la metafora di un’Italia devastata da Berlusconi. Eppure non ho mai pensato a un parallelo tra ieri e oggi.
Perché ha scelto per la sezione ‘Figli e amanti’ “Giuseppe Verdi” diretto da Carmine Gallone?
In un primo tempo avevo pensato a Ottobre di Ejzenstejn che, nonostante sia un’opera di propaganda, rimane un capolavoro, stupenda avanguardia, tant’è che alcune immagini le ho messe in Vincere. Le difficoltà nel reperire una buona copia, mi hanno spinto a buttarmi sul sentimentale. E mi sono ricordato di un film che aveva emozionato me 14enne: Giuseppe Verdi di Raffaello Matarazzo, con il personaggio di Giuseppina Strepponi molto bella e sensuale, interpretato da Gaby André, madre di Carole André. E’ lei a salvare Verdi nel momento più difficile della sua vita, quando ha perso la moglie, i figli e ha appena fatto fiasco alla Scala. E’ lei a credere in lui e a convincerlo a mettere in musica il libretto del ‘Nabucco’.
Ma questo film è di Matarazzo e non di Gallone.
Purtroppo c’è stato un equivoco con la direzione del Festival perché titolo è lo stesso. Ma non importa, mi spiace solo che nel Giuseppe Verdi che Gallone realizzò nel 1938 l’attrice nella parte della Strepponi non sia seducente come l’altra. E in questo caso c’è la curiosità che il fascismo, dopo aver inneggiato al futurismo, una volta al potere recupera il rapporto con la tradizione, di qui il revival dell’opera lirica.
Da dove viene questa sua passione per il melodramma?
E’ la musica della mia formazione, un amore che in parte mi ha passato mia madre. Ascoltavo le romanze con i dischi a 78 giri, mai le opere intere. Un amore che mi ha spinto all’idea, rimasta tale, di un film tratto dai “Pagliacci”, realizzato in economia, utilizzando la presa diretta e girandolo in un piccolo paese.
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