Marco Bellocchio a Rotterdam: “Libertà può essere anche una parola vuota”

Il grande regista italiano ha parlato con il pubblico di Rotterdam in occasione di una Masterclass: "Buñuel criticò aspramente 'I pugni in tasca'. In apparenza era un surrealista, ma sotto sotto si celava una personalità conservatrice”

Marco Bellocchio

Come abbiamo già avuto modo di approfondire parlando con la programmatrice Rebecca De Pas, il cinema italiano è molto seguito dal pubblico dell’International Film Festival Rotterdam, con alto indice di gradimento: mentre scriviamo queste righe, sul sito del festival la classifica aggiornata dei voti per il premio del pubblico (finora 80 film mostrati e votati) mostra che al ventunesimo posto c’è Rapito di Marco Bellocchio, con una media del 4,2.

E oltre al film stesso, presentato nella sezione Limelight che è quella più aperta al grande pubblico, spesso con titoli già acquistati per la distribuzione sul territorio olandese, c’era anche il regista, che ha dato una Masterclass all’interno del programma IFFR Talks, moderata dalla direttrice artistica Vanja Kaludjercic.

Impossibile non cominciare con I pugni in tasca, quel folgorante esordio che nel 1965 rimescolò le carte del giovane cinema nostrano. Cosa lo spinse a realizzarlo? “È passato tanto tempo, le motivazioni precise non le ricordo. In Italia rimasero stupiti perché parla di un figlio che uccide la madre, cosa che io trovavo drammaturgicamente corretta”. Un dettaglio curioso dopo l’uscita: “Il Partito Comunista non ne volle parlare, ma Italo Calvino scrisse un articolo su ‘Rinascita’ dove diceva che il PCI doveva fare pace con quel film”. E poi il passaggio al Festival di Mosca: “Lo mostrarono solo ai burocrati sovietici, non al pubblico, per la questione della psicosi”.

Sempre a proposito di festival, un memorabile aneddoto veneziano, con la giuria, presieduta da Alberto Moravia, che nel 1967 diede il Premio Speciale della Giuria ex aequo a La cinese di Godard e La Cina è vicina di Bellocchio: “Mi sorprese quell’ex aequo, per due film in apparenza simili ma in realtà molto diversi. Godard, nonostante avesse criticato il governo cinese, aveva comunque fatto un film militante; io invece avevo fatto una satira sulla gioventù militante”.

Il Leone d’Oro andò a Bella di giorno di Buñuel. “Lo incontrai, e mi disse ‘Io la ammiro, ma non approvo.’ Scoprii in seguito che aveva aspramente criticato I pugni in tasca. In apparenza era un surrealista, ma sotto sotto si celava una personalità conservatrice e bigotta”.

Tornando al discorso sulla militanza, viene spontaneo evocare le Brigate Rosse e il duplice progetto dedicato ad Aldo Moro, il film Buongiorno notte (2003) e la serie Esterno notte (2022). Perché questa sorta di dittico? “Ho avuto una vita lunga e ho raccontato quella storia in tempi diversi. Con gli anni è aumentato il senso di pietà nei confronti del prigioniero Moro, è diventato una specie di affetto filiale. Trovo assurdo che i brigatisti lo abbiano ucciso per ideologia, dimenticando che davanti a loro c’era un essere umano”.

Inevitabile, infine, la classica domanda ricorrente: si sente un cineasta libero? “Libertà può essere anche una parola vuota. Sicuramente sono stato libero con I pugni in tasca, perché all’epoca non avevo nulla da perdere. Il mio film più libero è Marx può aspettare, anche come tempi di lavorazione perché ci sono voluti cinque anni”. E Rapito? “Ho accettato una committenza dei produttori, con un budget limitato. Lì la libertà è artistica, e ho imparato a muovermi entro i limiti economici. Sono rispettoso dei budget, ma se avessi detto una cosa simile negli anni ’60 mi avrebbero lapidato”.

30 Gennaio 2024

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