TORINO – Un montaggio futurista, sonoro d’epoca e niente voce fuori campo, ma il contrappunto di un racconto personale che si rivelerà solo nelle ultime immagini. Marco Bechis prosegue la sua analisi dei meccanismi del potere, sistema di sopraffazione dell’individuo e del gruppo, annientamento di ogni alterità, benché col sorriso sulle labbra. E’ Il sorriso del capo, presentato al Torino Film Festival. Un film che nasce dall’archivio Luce, straordinaria miniera di immagini, ed è prodotto da Cinecittà Luce e Karta Film. Ne esce un ventennio dove il consenso è (o sembra) plebiscitario, dove giovani italiane e balilla si schierano a ranghi serrati, un regime che sa anche ridere, dei disfattisti per esempio come nei due episodi inediti di “Scemo di guerra”, siparietti che andavano prima del film, dove ci si fa beffe di chi non aderiva all’impresa bellica per difetto di patriottismo o vigliaccheria. Ed è anche un regime che fa ridere, come nei “fuori onda” del discorso del Duce a Torino nel ’32, con ritmi e gag da comica del muto e un baffuto gerarca che dirige la folla. “Il sorriso è quello del capo che vuole accattivarsi il popolo, ma anche quello del popolo che offre al capo il suo consenso”, sintetizza il regista di Garage Olimpo, che terrà il 28 novembre una lezione agli studenti del Dams sul tema “Il vero e il falso nel cinema”.
Un Mussolini simpatico dentro un regime che fa della leggerezza quasi una bandiera, nonostante le guerre e l’oro alla patria. Tanto che un ventenne borghese di quegli anni poteva confessare: “Non mi sono accorto di niente, per me andava tutto bene”.
Certo, volevo un Mussolini simpatico, come simpatico è Silvio Berlusconi. Non traccio un parallelismo tra queste due epoche della storia italiana, ma se mi metto a scavare nel passato è per capire il presente. Quando ho iniziato a lavorare al progetto, nel 2010, mi sono chiesto: come mai gli italiani ricadono negli stessi errori? La nostra malattia è il populismo e mi pare che sia peggiorata. Allora la propaganda sfruttava il cinema, la radio e i cartelloni che ripetevano le frasi del Duce in ogni città o paese d’Italia. Oggi i media sono più sofisticati, con la televisione e con internet, ma se definiamo come fascismo la propaganda e la capacità del capo di creare consenso, quel modo resiste e si è ramificato, come ci insegna Foucault.
Gli italiani di allora, quelli delle grandi adunate e delle campagne del grano, gli operai e le mamme dell’Onmi, sembrano ben più ingenui di noi.
Certo, non si possono fare parallelismi stupidi tra fascismo e democrazia. Ma anche oggi ci sono state le manipolazioni, della legge elettorale, per esempio. E la mistificazione della democrazia… Ogni volta che parlavo di questo progetto, nominando il titolo, qualcuno mi chiedeva: “Chi? Berlusconi!”
Per questo sono curioso di vedere come reagiranno i giovani vedendolo.
Come ha lavorato con Cinecittà Luce?
Il Luce mi ha dato carta bianca. A maggio del 2010 è nata l’idea, da novembre di quello stesso anno ho iniziato a lavorarci con il gusto di realizzare un film in poco tempo. Ma come muoversi in questo archivio sterminato, con quale criterio? Con Giovannella Rendi abbiamo cominciato a seguire un criterio alla Roland Barthes, una catena assolutamente soggettiva. Gigi Riva, un giornalista dell’Espresso, mi ha aiutato a dare struttura logica al materiale che ho poi montato con Jacopo Patierno, mentre Filippo Ceredi mi affiancato nelle ricerche. Oggi un archivista del Luce ha una responsabilità non solo tecnica ma filosofica, assomiglia al bibliotecario di Borges, deve avere anche un approccio intuitivo.
Quando le è venuta l’idea di coinvolgere suo padre, Riccardo Bechis, in questa rilettura del Ventennio?
Il sorriso del capo è un film costruttivista, futurista, e dunque non volevo usare la voice over, anche perché sarebbe stato un sacrilegio togliere l’audio originale con quella maniera di parlare, retorica e forbita. Mio padre Riccardo, ingegnere, è nato nel ’21, oggi ha 90 anni e sta scrivendo la sua autobiografia da un paio d’anni. Sentire la sua versione mi interessava per due motivi: prima di tutto perché è mio padre, ovviamente, ma anche perché era un borghese medio, l’incarnazione del delirio italiano. Non un antifascista della prima ora, ma un giovane uomo che solo l’8 settembre ha capito che era tutto sbagliato. A quel punto è andato dai partigiani, ma mancavano 15 giorni dalla fine della guerra.
Come definirebbe lo stile e il linguaggio dei filmati del Luce?
C’è un evidente influsso delle avanguardie russe, da Dziga Vertov in poi, con un’idea tutta italiana che precorre di dieci anni l’estetica nazista e Leni Riefenstahl. Pensate che c’era un’orchestra a Cinecittà che lavorava per musicare questi filmati. Quando abbiamo provato a sostituire un brano di Chopin con un’incisione dello stesso brano ma di miglior qualità, ci siamo resi conto che i tempi non coincidevano perché era stata incisa proprio per quel filmato. Bisogna anche dire che l’archivio Luce è un enorme serbatoio di finzione e di manipolazione che io, a mia volta, ho manipolato. In quelle immagini non troverete mai i veri italiani: nessuno ha filmato gli emigranti che partivano con le valigie di cartone o i bambini che finivano in riformatorio, nessuno ha mostrato la miseria. Non c’è niente di reale, è la cosa più falsa del mondo.
Ha voglia di tornare a setacciare le immagini dell’archivio per un altro film?
Certamente, però intanto sto scrivendo un thriller sul tema della giustizia che potrebbe essere ambientato in una zona di frontiera, tra l’Italia e la ex Jugoslavia, tra l’Argentina e il Brasile. La crisi del cinema italiano, delle idee distributive, della televisione che non sa cosa fare del cinema, è una tale catastrofe che ti costringe ad andare all’estero. Così anche questo nuovo progetto, che nasceva come il mio primo film tutto italiano, non trova i presupposti e dovrò produrlo con soldi in parte stranieri.
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