Un film rigoroso, politicamente corretto e dalla parte delle popolazioni indigene del Brasile e non solo, dal principio alla fine, quello firmato da Marco Bechis. Dalla scena iniziale di Birdwatchers-La terra degli uomini rossi, quando gli indios di oggi vengono pagati per travestirsi negli indios di ieri e farsi fotografare dai turisti venuti a guardare gli uccelli. A quella finale con il giovane apprendista sciamano con il suo disperato e liberatorio grido animalesco che risuona in una terra deforestata dai fazendeiros, ma dove un albero quasi invisibile sopravvive al centro di essa.
Dopo i campi di concentramento durante la dittatura militare argentina e il dramma dei figli di desaparecidos, Bechis porta in scena gli indios come attori protagonisti della loro ribellione per riprendersi una parte di quelle terre, di cui erano i legittimi abitanti e lasciarsi alle spalle un’insostenibile condizione di marginalità.
La scena è tutta loro, come lo è stata anche la conferenza stampa al Lido con l’intensa testimonianza di una giovane india, a nome anche degli oltre cinquecento giovani Guaranì-Kaiowa che negli ultimi vent’anni si sono suicidati. Per Bechis è il primo film come produttore in collaborazione con la Classic di Amedeo Pagani e Rai Cinema. Nel cast, tutto indio, ruoli minori per Chiara Caselli, la moglie del fazendeiro, Claudio Santamaria, lo ‘spaventapasseri’ armato della proprietà, e per Matheus Nachtergaele, noto attore di cinema e tv in Brasile.
Birdwatchers-La terra degli uomini rossi, esce domani in sala con 01.
Come nasce il film?
Da una serie di incontri con l’organizzazione Survival che si occupa dei diritti delle popolazioni indigene e mi ha dato un primo contatto con un avvocato in Brasile. E lì viaggiando nel Mato Grosso sono arrivato a Dourados dove ho conosciuto Ambrosio, nel film è il capotribù, e da quattro anni occupa una piccola parte di terra di una fazenda che produce soia transgenica. Dopo aver vissuto diversi anni ai margini di essa a lato di una strada, come racconto nel film, Ambrosio oggi rivendica più terra.
In genere quale è il rapporto dell’uomo bianco con questi indios?
Come li vedono i birdwatchers dal fiume, i turisti occidentali nelle prime inquadrature del film. Non riusciamo a guardare dentro la loro anima e a osservare la loro cultura e religiosità. Loro hanno idee più chiare di come si sta sulla Terra, non possiamo fare a meno di loro. Sono gli ‘altri’, quegli ‘altri’ di cui oggi in Italia si ha tanta paura. Ma se non abbiamo curiosità e non c’è scambio, non ci sarà vita e futuro per noi.
Un incontro ricco quello con i Guarani-Kaiowà?
Ho inventato e costruito il film evitando il resoconto documentaristico e chiedendo agli indios di interpretare dei personaggi. Ottocento interviste e tre mesi di seminari teatrali per avere un cast oltre duecento indigeni, senza imporre tecniche recitative classiche che avrebbero snaturato la loro spontaneità, ma partendo dal loro universo culturale e materiale.
I Guarani da subito hanno aderito al suo progetto?
Per loro è molto importante che la loro condizione venga conosciuta da più persone. Abbiamo costituito il Guarani Survival Fund a sostegno delle comunità indigene che stanno lottando per recuperare le loro terre. Una richiesta d’aiuto che ho voluto fosse nei titoli di testa prima del nome del regista.
Per le riprese si è preso un tempo impossibile per il cinema, sei mesi.
La sceneggiatura serve a trovare le risorse perché il progetto vada in porto e dà una direzione di lavoro ma per me è ancora estranea al film. Solo il set è il centro dell’attività creativa, perché il rapporto con i luoghi, con gli attori, con la realtà che si vive è più forte di quanto scritto, lo corrode.
Avete avuto problemi con le autorità brasiliane?
Abbiamo evitato qualsiasi rapporto diretto. Non abbiamo filmato nelle riserve degli indios per evitare la burocrazia, e abbiamo invece affittato una location.
Come ha girato il confronto tra il fazendeiro e il capo Guarani?
Sono lì in mezzo come sempre e porto lo sguardo dello spettatore da una parte e dall’altra. Ho voluto che il pubblico s’immedesimasse nelle ragioni del proprietario terriero, che peraltro non si capisce se sia coinvolto o meno in quel che accadrà. Dall’altra c’è l’indio che mangia la terra, vera terra dopo che abbiamo provato la scena senza successo con zucchero scuro.
Oltre alle musiche di Andrea Guerra, ha scelto dei motivi classici.
Brani scoperti solo una decina d’anni fa e composti nel Settecento da Domenico Zippoli, un missionario gesuita che ha vissuto tra i Guarani, raccogliendo i loro suoni e sviluppando il loro talento.
Quello che narra accade nel paese di un presidente di sinistra come Lula.
E’ stato un eroe negli anni passati, un politico capace e di buonissime intenzioni, ma la struttura economica del Brasile si contrappone così fortemente agli indios, che Lula fatica a seguire le sue idee originarie e talvolta le abbandona. C’è una sproporzione enorme tra gli interessi degli indios e quelli dell’agricoltura globale. Ed è per questo motivo che nel paese cambiano spesso i ministri dell’Ambiente e dell’Agricoltura. La deforestazione è stata selvaggia, la stessa legge brasiliana l’ha consentito. Una soluzione sarebbe quella di cedere 700mila ettari foresta ancora intatta ai Guarani perché ci vivino e lavorino.
Il film uscirà in parte con i sottotitoli?
Non ho voluto scene sottotitolate come quelle recitate in lingua guarani perché lo spettatore potrebbe pensare che sia un documentario e non vederlo. Ho tuttavia previsto alcune copie sottotitolate.
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