Un meraviglioso animale da palcoscenico. Attore-narratore e autore di molti dei testi teatrali che interpreta, Marco Baliani al cinema ci è arrivato da poco e ogni tanto se ne allontana.
E’ comparso in Teatro di guerra di Mario Martone, Domani di Francesca Archibugi e ultimamente in Il più bel giorno della mia vita di Cristina Comencini. Ora è impegnato sul set di Il ronzio delle mosche di Dario D’Ambrosi con Greta Scacchi, Raffaele Vannoli, Giorgio Colangeli, Renzo Alessandri e Denny Mendez. Le riprese del film, un art.8 prodotto da Gianfranco Piccioli per Hera International, si concluderanno in 2 settimane. A distribuirlo sarà l’Istituto Luce.
Poi Baliani tornerà a teatro con due suoi spettacoli, Kohlhas e Corpo di stato. La prossima stagione metterà in scena Lo straniero di Albert Camus.
Che ruolo interpreta in “Il ronzio delle mosche”?
Il dottor Graus, uno psichiatra cattivo che vive in una società dove non ci sono più malati mentali. Vuole ricreare il seme della follia e rinchiude gli ultimi tre pazzi rimasti sul pianeta in una realtà ‘virtuale’, che ricorda i romanzi di Philip Dick, per cercare di scoprire la formula con cui spargere di nuovo la malattia sulla Terra. La realtà, a parte questi tre dementi, è un orizzonte piatto dove tutti gli esseri umani traggono soddisfazione solo dal consumo. La pazzia diventa così un antidoto al benessere economico.
Insieme a lei recita Greta Scacchi.
E’ la dottoressa Natalia, una componente della mia équipe. Come qualsiasi uomo di potere, sono convinto che prima o poi la possederò, ma fallirò sia come scienziato che come amante.
Come vanno le riprese?
E’ un set più teatrale che cinematografico. Certo, si gira in fretta e si fanno pochi ciak, ma Dario ha una grande energia che trasmette a tutti.
Lei era il marito di Sandra Ceccarelli nel film della Comencini. Che impressione ha avuto da quell’esperienza?
Cristina ha una grande professionalità ed è molto razionale: mi sono sentito protetto. Il più bel giorno della mia vita ha avuto successo al botteghino perché la Comencini ha usato i meccanismi percettivi del serial televisivo acquisiti dal pubblico e li ha portati ad un livello più alto. La scena della bambina che riprende la famiglia con la sua nuova videocamera spiega bene quello che voglio dire. Cristina Comencini ha usato la camera con una leggerezza frutto di un’idea precisa, non casuale.
Dunque il motivo del successo sta nel fatto di aver trovato una buona sintonia con lo spettatore medio?
La televisione, dagli anni ’80 ad oggi, ha generato nel pubblico un appiattimento percettivo. Ora questa piattezza è arrivata al massimo. Oggi il cineasta che esce dai canoni spiazza la gente. Per me un esempio di vero cinema è Dancer in the dark, che hanno visto in pochi. Da noi manca il coraggio visionario. Le persone si autocensurano perché hanno paura. Gli autori spesso fanno un passo avanti e tre indietro. Perché non possiamo fare film come No man’s Land? Manca la rabbia di autori come Egoyan, Tanovic o Von Trier. Non sto parlando di competenze. Gli autori sono bravi e pieni di idee, il problema è la carica. In questo sistema manca l’hardware: non ci sono più produttori. Quelli di oggi sono raccoglitori di fondi, sono impegnati a reperire il denaro per arrivare almeno a non doverci rimettere e alla fine non riescono neanche a trovare una distribuzione per i loro film. Gli archivi italiani sono pieni di pizze che nessuno ha mai visto. Tra l’altro questa situazione si iscrive in un orizzonte culturale deprimente. Non ci sono intellettuali che prendano la parola e osino rompere il grigiore generale. Oggi lavorare nel cinema vuol dire lavorare in un settore superfluo.
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