“Mio padre ha saputo fare bene troppe cose, era un vero eclettico, era capace di recitare, di fare più tipi di cinema, cosa che non succede agli autori per antonomasia. E il critico cinematografico, attento solo all’autore tout court, quello monotematico, è sempre stato prevenuto”. Così il figlio Manuel De Sica sintetizza l’intensa produzione artistica del padre, quasi duecento i film interpretati e realizzati a partire dagli anni Venti fino alla regia de Il viaggio del ’74.
Possiamo parlare di un artista eclettico?
Quell’eclettismo che c’era anche in John Huston, amato e sempre ricordato da mio padre: “Lui ha finito facendo dei grandi film, io al contrario concludo la mia carriera con brutti film dopo averla iniziata in modo splendido”. Lo stesso Luchino Visconti diceva di realizzare sempre lo stesso tipo di film, come Fellini e Antonioni, al contrario di Vittorio che ne fa tanti e fa centro. E poi il comico indigna e irrita l’intellettuale, che è profondamente tetro,oggi si salva solo Benigni perché è inattaccabile.
Sua sorella Emi ricorda quanto il padre fosse modesto, tanto che l’aiuto regista Luisa Alessandri lo chiamava “opera prima”, perché ogni nuovo film era vissuto come il film del debutto…
Lui andava dietro ai produttori, faceva vedere quanti metri di pellicola aveva girato, rincorreva Marina Cicogna e Carlo Ponti, perché il suo vanto era quello di non far perdere tempo. Visconti e Fellini si facevano rispettare, riuscivano ad avere molto tempo per lavorazione di un film. Con lui sembra quasi di ritornare al tempo degli studios americani quando i registi venivano a settimana e passavano da un film all’altro. Papà era uno che correva per fare bene e meglio nei confronti dei produttori e non è stato ricambiato da questi con grandi gesti.
Ci sarà un’eccezione?
Il produttore di James Bond che una volta per riparare ai suoi debiti di gioco gli chiese in cambio di realizzare Un mondo nuovo. Il film andò malissimo, ma il produttore inviò a De Sica un telegramma: “Se non va bene sulla Terra, andrà benissimo su Marte”. E poi voglio ricordare con grande affetto Fausto Saraceni, perché fu lui a portare il libro di Bassani Il giardino dei Finzi Contini, un produttore creativo sempre vicino a mio padre durante tutta l’edizione del film.
L’essere modesto non ha dunque giovato alla sua fama?
Sì, perché non si sapeva vendere. Dopo Il giardino dei Finzi Contini per il quale vinse l’Oscar, il quarto, per il miglior film straniero, mio padre non riusciva a realizzare Lo chiameremo Andrea fino a quando un giorno non si è svegliato Nino Manfredi, allora un attore in auge, e ha detto “voglio fare questo film”, prendendo in mano la situazione. Questo fatto dà la misura della persona, del carattere e in fondo anche dell’incapacità imprenditoriale di De Sica. E poi era molto complice e solidale con i suoi colleghi, non sopportava che qualcuno parlasse male di un autore, perché conosceva la fatica della regia. “Fare un film è una cosa tremenda” ripeteva spesso.
Quali attori De Sica amava?
Papà riconosceva in Sordi e Totò gli unici grandi attori comici italiani, sosteneva che entrambi fossero abitati da demoni, ed anche inconsapevoli della loro genialità. E poi aveva una grande predilezione per Silvana Mangano, avrebbe voluto farla lavorare molto di più che non il solo episodio di Teresa ne L’oro di Napoli.
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