LOCARNO. Un film ambientato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, e in quegli anni uno dei personaggi più caratteristici era sicuramente Carletto Mazzone, l’allenatore romanissimo che, richiesto di battere la Juventus, esclamò memorabilmente “Magara!”. Eh sì anche gli anni ’80 di Craxi e del turbocapitalismo avevano un aspetto popolare, fatto dalle canzoni di Umberto Tozzi, dai film vacanzieri di De Sica e dal pugliese slang di Lino Banfi: e Ginevra Elkann, nel suo Magari – esordio al lungometraggio presentato a Locarno 2019 come film di apertura in Piazza Grande – cita tutti, con Alba Rohrwacher che rifà il verso a Mazzone appunto e Riccardo Scamarcio che imita Banfi.
La storia di Magari (che uscirà nelle sale a marzo 2020) però è completamente diversa. È una storia di ragazzini pieni di speranze e di fragilità e di grandi che sanno essere molto più immaturi di loro. “Un film che nasce da un sentimento autobiografico – spiega Ginevra Elkann – quello della piccola Alma, figlia di genitori separati, che vorrebbe rivedere insieme la sua mamma e il suo papà, e che ha cercato però di dare corpo a tante storie, a quella di tanti bambini, oggi forse adulti e genitori, che hanno vissuto il loro personalissimo ‘magari’”. E la chiave di questo film delicato e discreto, che riesce a immergersi in una memoria individuale ma che sa anche ricostruire parte di quella collettiva, sta proprio in questa parola che dà il titolo al film e che per la Elkann è “una parola bellissima, perché comprende insieme un sentimento di felicità e malinconia, due aspetti fondamentali della storia che ho voluto raccontare”.
Lo sguardo infatti è soprattutto quello della piccola Alma, figlia più giovane di una coppia separata, con tre bambini, coppia molto più proiettata alla realizzazione personale e alla rincorsa di nuovi amori che dedita alla cura dei figli. I suoi sogni ad occhi aperti, che sono i suoi ‘magari’, e che mettono insieme la speranza del presente con il sogno del futuro, ci raccontano tante piccole emozioni dell’infanzia, le illusioni e le delusioni nel rapporto con i genitori, che in questo caso, lo abbiamo detto, non sono a loro volta cresciuti. E poi la solitudine, derivata soprattutto dall’incapacità degli adulti di essere dei riferimenti, di rivestire in maniera corretta il ruolo di genitori.
E proprio questa inattendibilità delle figure genitoriali, questa ambiguità dei riferimenti educativi danno forza e credibilità alla storia. “Volevo raccontare dei personaggi veri – sottolinea la regista – che fossero come sono nella realtà, fatti di chiaroscuri, di sfumature, di nevrosi ed egoismi, ma anche di tratti che in qualche modo consentissero di provare affetto e indulgenza verso di loro”. E in questo senso la figura più ricca di contrasti è certamente quella del padre Carlo, interpretato da Scamarcio, regista ansioso di scrivere il film della vita ma totalmente incapace di gestire i rapporti familiari. “L’egoismo e il narcisismo di Carlo rendono questo personaggio vero, a tratti anche simpatico, perché fragile – dice Scamarcio – non posso dire che mi assomigli, ma per dare corpo a quella distanza fra lui e i figli ho pensato a mia madre, a quando dipingeva e io mi sentivo escluso da quel mondo da cui in qualche modo ero lasciato fuori”.
Gli fa eco Alba Rohrwacher: “Anche il mio personaggio, Benedetta, collega e amante di Carlo, è molto ambiguo. Di lei non si sa quasi nulla, eppure è il motore principale dei tanti cambiamenti che avvengono nel film. Non è stato facile interpretare un personaggio così, che poteva scadere con grande facilità nello stereotipo, ma che invece si mostra anch’esso molto ricco, grazie al fatto di essere imprevedibile e capace di rilanciare costantemente il gioco in maniera inaspettata”.
A interpretare i tre bambini della coppia, Alma, Jean e Sebastiano, sono invece rispettivamente Oro De Commarque, Ettore Giustiniani e Milo Roussel, tutti e tre alla prima esperienza davanti alla macchina da presa. “Lavorare con i ragazzi e con i bambini non è facile, ma loro sono stati davvero molto bravi – racconta Ginevra Elkann – e mi hanno aiutata, anche se appartengono a generazioni completamente diverse dalla mia, a ricreare quel tempo di sospensione, di sogno e di attesa che è l’infanzia, un tempo che quando sono stata bambina io era molto più lungo, più vuoto, perché non c’erano tutti gli stimoli che ci sono oggi, ma in cui la noia ti aiutava a conquistare il tuo spazio di libertà”.
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