“Ho saputo al telefono da Gian Luigi Rondi di questo David di Donatello alla carriera e mi consola molto che sia stato dato all’unanimità. Un premio per il complesso dei miei film che ho fatto e che tutti mi soddisfano. Un David che aiuta molto in un periodo in cui si lavora poco. E poi per un premio del genere c’è chi ammazzerebbe anche la madre”.
Il regista Luigi Magni, romano doc, festeggerà con questo prezioso riconoscimento il suo ottantesimo compleanno domani 21 marzo. E Cinecittà Holding gli dedicherà una serata omaggio lunedì 31 marzo a Roma al Cinema Reale (ore 19.00, piazza Sonnino), con testimonianze di attori e collaboratori del regista, presenti Francesco Rutelli, ministro per i Beni e le Attività culturali, Alessandro Battisti e Francesco Carducci, rispettivamente presidente e ad di Cinecittà Holding. Ad aprire la serata sarà il film La Tosca, copia messa a disposizione dalla Cineteca Nazionale, interpretato tra gli altri da Monica Vitti, Gigi Proietti e Vittorio Gassman, e un intervento dello storico Lucio Villari.
Uno storico perché la sua ricca carriera artistica è segnata dal costante interesse verso la Roma papalina e quella popolare di Gioachino Belli. Famosa è la sua trilogia sull’Ottocento risorgimentale Nell’anno del Signore…, In nome del Papa re, In nome del popolo sovrano. Opere sempre in bilico tra commedia e tragedia, tra farsa e dramma, dove verità e finzione storica si mescolano e dove protagonisti sono carbonari e patrioti, cardinali e sbirri, sostenitori della Repubblica romana e un prete garibaldino.
Come nasce il suo rapporto con il cinema alla metà degli anni ’50?
Per caso. Io e un ragazzo italoamericano, Willie Antuono, andavamo a cena da Menghi, un ristorante frequentato allora da tutti i cinematografari di successo e non. Ed è lì che un amico ci chiese di scrivere un soggetto per l’esordio di un giovane regista, Antonio Racioppi, appena diplomato al Centro sperimentale di cinematografia.
Il soggetto di Tempo di villeggiatura, una volta scritto, piacque molto a Luigi Zampa che era il supervisore di questo debuttante, ma disse anche che perché diventasse una sceneggiatura erano necessari degli sceneggiatori di professione e affidò il lavoro ad Age e Scarpelli, con i quali collaborai. Del resto era il tempo dei cosiddetti ‘negri’ che lavoravano per nomi già affermati.
Il suo primo film da regista è del 1968, fino ad allora è sceneggiatore per registi come Mastrocinque. Bianchi, Festa Campanile, Lizzani, Lattuada, Bolognini e Monicelli.
Alla lunga mi stancai di scrivere sceneggiature per gli altri, anche perché il copione cambiava sempre un po’. Vuoi per le esigenze degli attori, vuoi per accontentare il produttore. Ma come m’insegnò Scarpelli: “Sul set non comanda nessuno, né il regista famoso né il bravo attore, comanda il copione. Devi rimanere fedele al copione, altrimenti si vendica”. Così decisi di scrivere e girare Faustina, storia di un’afroromana, in realtà l’interprete era una ragazza afroamericana, una pantera nera come esistevano all’epoca perché il ’68 era l’anno della rivoluzione femminile.
Gran parte dei suoi film raccontano vicende della Roma papalina o del nostro Risorgimento. Da dove viene questo costante interesse per quel periodo?
Sono un fanatico della Storia, possiedo una ricca biblioteca. Una delle ragioni per cui il nostro Risorgimento è fallito? Perché è rimasto sempre in piedi il potere temporale del Papa che come disse Mazzini rappresentava la vergogna civile dell’Europa. Non si poteva avere un Papa che fosse nel contempo capo religioso e sovrano. Il Papa decideva, per non parlare delle esecuzioni capitali. Uno dei più famosi carnefici dello Stato Pontificio fu Mastro Titta, il boia di Roma, con le sue oltre 500 esecuzioni volute dal Tribunale della controriforma. E poi parlando del nostro Ottocento ho potuto fare riferimenti al nostro presente.
Si considera un anticlericale?
No è una reputazione che non merito, i miei film erano soltanto contro il potere dispotico del Papa, in particolare contro il Tribunale dell’Inquisizione che aveva poteri sconfinati.
Che ne pensa del pontificato di Benedetto XVI?
Preferisco Giovanni Paolo II perché ha detto una frase che nessun Papa ha mai dichiarato. Un giorno tornando al Vaticano si è fermato davanti alla Sinagoga, sul Lungotevere. E’ sceso dalla macchina, è entrato nel tempio affollato di fedeli che ascoltavano il rabbino e salutando tutti ha detto loro: “Voi siete i nostri fratelli maggiori”.
Che trattamento ha avuto dalla critica cinematografica?
Davo fastidio sia a quella che era al servizio della Democrazia cristiana sia a quella che si riconosceva nella sinistra del compromesso storico. E questo scontentare entrambi non mi dispiaceva affatto. Comunque qualcuno che ha scritto bene del sottoscritto c’è stato, anche molti storici hanno apprezzato il mio lavoro. Ho avuto anche, grazie presidente della Repubblica Ciampi, un premio dal Museo del Risorgimento di Roma, il Premio Righetto che prende il nome del piccolo eroe 12enne della Repubblica romana.
Un film rimasto nel cassetto?
Avrei voluto girare in Africa orientale la storia vera di un figlio di un ras dell’Etiopia, al tempo dell’occupazione fascista, che era stato deportato nel nostro paese perché non aveva fatto atto di sottomissione all’Italia e da noi, in Calabria, s’innamora di una donna che governava la sua casa. E questo giovane, una volta liberato dagli angloamericani dopo essere stato trasferito dai fascisti nella Repubblica di Salò, torna in Africa e vede i danni compiuti dagli occupanti italiani.
E il lungo sodalizio con Nino Manfredi, interprete di tanti suoi film?
Innanzitutto un’antica amicizia durata tutta la vita. Di me e Nino ci dicevano che eravamo come fratelli, infatti ci capivamo e avevamo un modo di esprimerci molto simile. Poi è stato un attore bravissimo. Alberto Sordi faceva sempre Sordi, qualunque fosse il ruolo era sempre se stesso; Manfredi entrava invece totalmente nel personaggio, anche quando interpretava una parte per lui non facile come quella di un prete.
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