Luigi Falorni: piccoli cuori nell’inferno della guerra


Tra proteste e minacce, Heart of Fire è finalmente arrivato in concorso alla Berlinale. Diretto da un fiorentino (candidato all’Oscar per La storia del cammello che piange) ma produttivamente tedesco, è ispirato al controverso libro biografico di Senait Mehari e racconta una vicenda che, evidentemente, si vorrebbe restasse occultata. Il governo eritreo ha negato infatti i permessi a girare sul territorio nazionale, arrivando a inviare una lettera alla produzione in cui si affermava: “In nessun momento della guerra d’indipendenza eritrea i bambini e i ragazzi minori di 18 anni hanno imbracciato le armi. Quelli che spontaneamente volevano unirsi all’esercito venivano rispediti a casa”. Il set si è spostato allora in Kenya, ma a pochi giorni dalle riprese la maggior parte del cast – tutti non professionisti di origine eritrea ma residenti a Nairobi e in altre città – si è volatilizzato dopo aver ricevuto esplicite minacce telefoniche. Alla fine a recitare nel film, in lingua tigrinì, sono stati i rifugiati del campo profughi di Kakuma, tra cui la piccola Letekidan Micael, nel ruolo di Awet, una bimba di dieci anni che il padre, convinto indipendentista, affida all’esercito di liberazione per farne un piccolo soldato. Sopravvive ai combattimenti e alla paura, costretta a confrontarsi con il sangue, la violenza e la morte, e riesce infine a mettersi in salvo in Sudan dopo aver attraversato il deserto a piedi: non viene ferita né torturata, certo, ma la sua esperienza è comunque una violazione al diritto fondamentale a un’infanzia serena e al riparo da minacce. Per Günter Haverkamp dell’associazione pacifista Aktion Weisses Friedenband un bambino soldato è “qualunque minore si trovi arruolato in un esercito anche se lavora in cucina e non combatte al fronte. Naturalmente il caso dell’Uganda o della Sierra Leone è molto più grave, ma questo non giustifica la negazione di fatti dimostrati da foto, reportage e testimonianze”. CinecittàNews ha incontrato Luigi Falorni per approfondire la vicenda di Heart of Fire, che è stato appena acquistato alla Berlinale dalla BIM.

Come spiega tutta questa ostilità verso il film?
A protestare sono soprattutto gli eritrei che vivono in Germania e che se la prendono con il libro di Senait Mehari. Credo che la cosa che è più li ferisce è che si possa dire che i bambini vennero “usati” nella guerra d’indipendenza. Perché i bambini e gli adolescenti spesso lasciavano la famiglia e chiedevano di combattere spontaneamente, volevano essere eroi. Tuttavia dire che non ci siano mai stati minorenni combattenti è falso. Ho fatto molte ricerche su questo argomento. Non si può negare la presenza dei bambini nelle due formazioni che combatterono la guerra d’indipendenza dall’Etiopia: l’Eritrean Liberation Front dal 1961 e più tardi, dal ’71, l’Eritrean People Liberation Front.

Lei ha scelto di discostarsi in maniera sostanziale dal libro.
Non l’ho fatto certo per evitare polemiche. Fin dal primo incontro con Senait le ho chiesto di fidarsi di me perché, partendo dal suo libro, avevo intenzione di raccontare la storia di tutti i bambini soldato e non una singola storia. Più in generale il mio metodo è leggere un libro una sola volta, annotare, in tre o quattro frasi, cosa mi ha colpito, emozionato e coinvolto e poi creare una storia autonoma.

Perché non parlare dell’Uganda volendo raccontare il dramma dei bambini soldato?
Heart of Fire non è un film di denuncia, non avevo l’intenzione di fare un film sui bambini obbligati a mangiare la carne dei cadaveri, ma piuttosto volevo dare una speranza, mostrare una bambina che, nonostante tutto, resta tale. L’Eritrea è un piccolo paese eroico che si è battuto contro l’Etiopia, paese molto più forte e sostenuto dagli americani, e che è riuscita a liberarsi dopo trent’anni di guerra: in questi trent’anni anche i più piccoli furono coinvolti. D’altronde bisogna dire che pure tra i partigiani in Italia c’erano dei ragazzini.

La piccola Awet riesce a proteggersi attaccandosi a delle piccole cose che porta con sé: il sacro cuore che le suore italiane di Asmara le hanno regalato, la parabola evangelica del porgi l’altra guancia.
Sono aspetti che non erano nel libro e che esprimono la mia idea di Gesù come un combattente per la libertà. Da qui viene quell’interpretazione della parabola: la guancia destra si colpisce con il dorso della mano e questo era un modo per sminuire la dignità della persona colpita, per umiliarla. Porgere l’altra guancia, la guancia sinistra, voleva dire non farsi trattare come schiavo ma come un uomo libero.

È singolare che il film diretto da un italiano e che parla di una ex colonia italiana non abbia trovato una coproduzione nel nostro paese.
L’intenzione c’era, ma nei tempi ristretti di un progetto internazionale non è stato possibile conciliare i tempi della burocrazia: dalla richiesta di finanziamenti statali al coinvolgimento delle televisioni. Così abbiamo lavorato con l’Austria. Ma credo che bisognerebbe snellire gli apparati, unificare le date dei finanziamenti, integrare le legislazioni europee. Le nostre cinematografie nazionali possono resistere all’ondata d’urto di Hollywood solo se lavorano unite.

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14 Febbraio 2008

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