Luigi Falorni


L. Falorni“Alla Notte degli Oscar spero di incontrare Scorsese e magari anche di stringergli la mano. A vincere invece non ci penso, è già un miracolo essere candidato”. Luigi Falorni, 34 anni, toscano del Mugello, ormai trapiantato a Berlino, ha una nomination con il documentario La storia del cammello che piange, realizzato in Mongolia insieme a Byambasuren Davaa. Un film che nasce come saggio di diploma alla prestigiosa scuola di cinema di Monaco grazie alla coproduzione della tv bavarese e al contributo di un fondo statale locale, diventando via via un caso. In Germania e negli Stati Uniti è già uscito nelle sale con incassi più che lusinghieri, oltre due milioni di dollari al box office americano. Venduto in trenta paesi, anche grazie all’effetto della nomination, uscirà in Italia, con Fandango, alla fine di marzo.

È un miracolo che in Italia non sarebbe stato possibile? 
In Italia ho problemi anche a spiegare il lavoro che faccio: quando dico che faccio documentari tutti pensano ai reportage televisivi o al leone che mangia la gazzella, mai a una vera storia con veri personaggi.

Qual è il problema?
Innanzitutto gli sbocchi: in Germania otto reti tv hanno in palinsesto il documentario d’autore. Da noi, questo non esiste, anche se credo che ci sia un potenziale. La fiction è un po’ in via di esaurimento, il documentario è un territorio nuovo per contenuti e forma.

La storia del cammello che piangeCome mai sei andato a studiare cinema a Monaco?
Avevo fatto un corso a Firenze, poi Cinzia th Torrini mi ha consigliato questa scuola, dove si era diplomata anche lei. Quando sono arrivato non parlavo una parola di tedesco e per il primo anno ho fatto l’uditore. Poi mi sono inserito e complessivamente sono rimasto quasi dieci anni in rapporto con la scuola, che dopo la formazione classica funziona come struttura aperta e di supporto ai progetti.

La nomination ti ha portato qualche nuova opportunità?
Per ora solo alcuni contatti da verificare, con produttori americani e tedeschi, spero che servirà a finanziare il prossimo progetto.

Come ti sei imbattuto nella storia del cammello che piange, un piccolo cammello albino rifiutato dalla mamma?
La co-regista, Byambasuren Davaa, era mia compagna di corso. E’ originaria della Mongolia ed è lei che mi ha raccontato di questo rituale musicale con cui la cammella che rifiuta il piccolo viene stimolata ad accettarlo attraverso la musica. Abbiamo così deciso di andare in Mongolia per una prima ricerca di due settimane, senza la troupe, siamo tornati e abbiamo allargato la storia anche al rapporto tra nomadismo e modernità, concentrandoci sulle nuove generazioni. Quindi, dopo aver scritto, siamo tornati per girare. Eravamo sei in tutto, per non disturbare l’ambiente e per poterci muovere all’interno degli spazi ristretti della yurta, la tenda mongola. Abbiamo lavorato per 7 settimane, tra molte avversità, dalle tempeste di neve a quelle di sabbia, nel periodo del disgelo e in primavera. Soprattutto è stato importante e delicato registrare i suoni.

Ti piacerebbe raccontare una storia italiana?
Molto, ma di solito sono le storie che ti trovano.

autore
24 Febbraio 2005

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