“Coi voti cominciano appena nasci. Siamo qui per prendere e dare voti. Ma dovremmo capire che è meglio fare ciò che conta per noi e non quello che fa aver buoni voti”.
Luciano Ligabue, alla seconda prova da regista con Da zero a dieci, lancia la sua filosofia e forse anche un trend. Il nuovo film, prodotto ancora una volta da Domenico Procacci in collaborazione con Medusa, è, dice, una sorta di “cura omeopatica” per guarire dall’ossessione del giudizio.
Protagonisti sono 8 personaggi – leggi cosa dicono gli attori – che si rincontrano a Rimini durante un weekend per fare tutto quello che non avevano fatto vent’anni prima. Saltano i racconti sul tempo trascorso e li riassumono attribuendo alla loro vita un voto: da zero a dieci…
Dopo “Radio Freccia” avevi detto che non avresti più fatto il regista. Perché hai cambiato idea?
Il cinema è un virus che una volta inoculato ti divora dentro bastardamente. Ho capito che, rispetto alla musica, offre più spazio per la narrazione. Il film prende spunto da un weekend che davvero avrei dovuto fare con alcuni amici, ma soprattutto da una mia riflessione sul modo in cui la casualità influisce sugli eventi. Il 2 agosto del 1980, il giorno della strage della stazione di Bologna, facevo il militare in quella città. Decisi di andare a Rimini e invece del treno presi la macchina. Una scelta fortunata. Così ho deciso di raccontare gli effetti che quella violenza ha prodotto su tutti coloro che hanno conosciuto le 85 vittime della strage.
Come nel tuo film precedente c’è un riferimento nostalgico agli anni ’70. Trovi qualche affinità tra quell’esperienza politica e quella del movimento no global?
Negli anni ’70 la speranza di vivere in un mondo più giusto, in cui la tua felicità passa anche per quella degli altri, era condiviso da molti. Era un desiderio collettivo ed è normale sentire la nostalgia di un sogno così. La differenza di fondo tra quel periodo e i no global è che allora c’era una leadership forte mentre ora il movimento rifiuta la rappresentanza e fa della frammentazione un valore. Va bene, ma ho la sensazione che per arrivare ad uno sconvolgimento radicale sia necessaria una qualche forma di rappresentanza.
I tuoi 8 personaggi si muovono nella Rimini di oggi. Una città che il sociologo Aldo Bonomi definisce parte del “distretto del piacere”…
Rimini è un po’ come Las Vegas: entrambe nascono sul niente. La città americana sul deserto, quella italiana su un mare poco attraente. È un contenitore artificiale per ogni forma di divertimento. Soprattutto il sesso: lì gli incontri sono facili e veloci. Il luogo perfetto in cui perdere la verginità.
Vieni da Correggio come Pier Vittorio Tondelli. La sua scrittura ti ha influenzato?
Direi che è stata cruciale. Mi ha insegnato che a volte posare il proprio sguardo sulle cose quotidiane e raccontarle le rende mitiche. Tra i suoi libri il mio preferito è “Altri libertini” che, nel 1980 a venti giorni dall’uscita, venne sequestrato per i contenuti giudicati osceni. “Rimini” mi piace meno, mentre credo che “Un weekend postmoderno” offra il materiale ideale per chi voglia fare un film sugli anni ’80.
Che cosa rispondi a chi etichetta il tuo film come “generazionale”?
Che la categoria di generazione è troppo astratta e rischia di non rappresentare nessuno. Il mio film è ambientato nella provincia in cui vivo da sempre e mette in scena cose che ho visto e vissuto senza l’ambizione di generalizzare.
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