Sono i fratelli gemelli del cinema italiano Luca e Marco Mazzieri. Quasi indistinguibili perfino dai loro attori sul set di Giovani, quarto lungometraggio con cui passano dai toni leggeri della commedia (I virtuali, amato da Moretti, e Voglio una donnaaa!) a temi come il rapporto con la morte, l’eutanasia, la scelta di portare avanti una maternità.
Scritto e diretto dalla coppia creativa di 43enni originari di Parma, prodotto dalla loro società Set22, girato in digitale con meno di 1 mld di vecchie lire (“Il Fondo di garanzia più basso della storia” dicono), il film racconta la giornata particolare di due ventenni colti, spiegano i Mazzieri, “nel difficile passaggio tra l’adolescenza e la maturità e costretti a scegliere tra la vita e la morte”.
Per interpretarlo hanno voluto Davide Pasti e Gallianne Palayret, selezionati dopo 500 provini, esordienti sostenuti da un solido cast in cui spiccano Lina Sastri e Massimo Wertmuller.
Giovani, distribuito dall’Istituto Luce, uscirà il 17 gennaio.
“Giovani” segna una spartiacque nella vostra carriera?
Sì, siamo due artigiani del cinema che ancora non hanno uno stile definito. Virtuali era un film pieno di ironia, Voglio una donnaaa! un omaggio ai registi che abbiamo amato. Poi c’è stata la commedia in lingua tedesca Due facce da cinema in cui abbiamo diretto Hans Brenner, attore di Herzog e Fassbinder. Qualcuno ha scritto che Giovani ricorda il primo Bellocchio. Non sappiamo se ha ragione ma di certo per noi è come un ‘salto nel vuoto’, una riflessione su temi profondi.
Come la possibilità che il protagonista Matteo pratichi l’eutanasia sulla madre malata terminale.
La storia di Matteo si avvicina ad una nostra esperienza personale. Per portarla sullo schermo ci sono voluti 10 anni di cui 2 per scrivere e riscrivere la sceneggiatura. Ma non ci interessava lo psicologismo d’accatto dell’elaborazione del lutto presente in molti film, né fare un’analisi compiaciuta del dolore simile al cliché televisivo. L’apporto di Carlo Fontana, montatore e cosceneggiatore, è stato fondamentale per asciugare ogni retorica. Così abbiamo messo al centro l’energia dei ragazzi, due portatori di verità che si scontrano con il mondo compromissorio degli adulti. Il risultato è un inno alla vita e all’amore. Eutanasia e aborto, che per noi sono scelte individuali, non sono i temi centrali.
Perché avete scelto di girare in digitale?
Un po’ perché veniamo da una scuola che non esiste più: l’Università del cinema di Cesare Zavattini e Leon Viola in cui, già nell’81, si intuì la possibilità di girare un film con una telecamera. Il digitale ci ha permesso non solo di abbassare i costi ma, soprattutto, di pedinare e stare addosso ai personaggio. Grazie all’uso delle videocamere il set è diventato un cantiere in cui immagazzinare immagini immediate. Era così aperto che alla fine delle riprese avevamo 60 ore di girato.
Perché Parma come set?
E’ una città piena di contrasti come il film. Siamo andati a cercare le sue zone più vive, più rudi, quelle non da cartolina, tra la periferia più malinconica e le architetture storiche.
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