“Aung San Suu Kyi non ha ancora visto il film, lo vedrà quando sarà abbastanza forte. Il film in Myanmar (Birmania) è vietato, ma al momento è il più piratato, e questa volta posso anche accettare la pirateria quando aiuta la causa della democrazia di un popolo”. Così il regista Luc Besson parla di The Lady, il film sull’oppositrice non violenta della dittatura militare birmana e Premio Nobel per la Pace, che ha inaugurato lo scorso ottobre il Festival di Roma e ora arriva nella sale il 23 marzo in 150 copie distribuito dalla neonata Good Films. The Lady esce quasi in contemporanea sia con le elezioni dell’1 aprile nelle quali Aung San Suu Kyi, è candidata della Lega nazionale per la democrazia che si batte per ristabilire lo stato di diritto nel Paese, sia con il suo primo discorso in tv il 22 marzo, trasmesso dalla rete pubblica sicuramente censurato, mentre già la versione integrale circola su YouTube.
Il film è accompagnato dalla campagna ‘Send a message’ ispirata dalla celebre frase della leader birmana “Use your freedom to promote ours”. L’iniziativa, promossa da Good Films con il sostegno di Amnesty International-sezione italiana, intende sensibilizzare l’opinione pubblica italiana, invitando gli utenti a inviare il loro video messaggio di solidarietà a Aung San Suu Kyi. I video arrivati saranno poi raccolti in un’unica clip che verrà consegnata alla leader.
“Le prossime elezioni saranno le più aperte e pubbliche mai svolte finora in Myanmar. Il governo birmano si è spinto troppo avanti per tornare indietro – spiega Besson – Sono convinto che lei verrà eletta al parlamento e che tra quattro anni sarà la presidente del suo Paese”.
Ma The Lady, girato in Thailandia, non è solo il racconto epico della pacifica lotta di una donna contro un una dittatura ma anche la storia di una straordinario rapporto amore con il marito nonostante le lunghe separazioni. Come ricorda Besson Suu Kyi, che aveva vinto le lezioni nel 1990, ha dovuto scegliere tra la patria e la famiglia, e questa scelta le è costata oltre 15 anni di arresti domiciliari e la separazione lunga un decennio dai suoi figli.
Che cosa l’ha appassionata di più: l’impegno politico di questa donna o la grande storia d’amore con il marito?
Anch’io conoscevo, come tutti, la sua vicenda politica, che era stata agli arresti domiciliari, che si era battuta per il suo popolo e per la democrazia del suo Paese, ma non sapevo quasi nulla della sua storia personale. Quando ho letto la sceneggiatura ho pianto per due ore, sono rimasto molto toccato da questa donna eccezionale, che sosteneva la non violenza. Una donna minuta, piccolina che è riuscita a tenere testa in 25 anni a un esercito armato, a una dittatura sanguinaria. L’unica arma che le ha permesso di resistere è stata l’amore per il suo Paese, per i suoi figli, per il marito.
Una storia importante…
E’ stata proprio questa storia straordinaria che mi interessava raccontare, soprattutto oggi che nella nostra società siamo carenti di simboli forti. Stavo già lavorando a un altro progetto ma ho deciso di metterlo da parte quando mi è stata presentata la storia di questa eroina, di un vero e degno rappresentante della razza umana.
Le difficoltà che ha incontrato nel realizzare il film?
Numerose, perché non ci sono testi, anzi spero che lei scriva presto un libro in cui si racconti. Quando abbiamo iniziato le riprese Suu Kyi era agli arresti domiciliari già da undici anni, i suoi amici più vicini o erano morti o erano in prigione, il marito era già scomparso. Non c’erano molte persone con cui lavorare e poi ci siamo avvicinati alla sua famiglia con molto rispetto e discrezione, perché solo con il loro consenso si poteva realizzare il film. Fondamentale è stato poi l’appoggio di Amnesty International e di Human Rights Watchers che ci hanno inviato i loro preziosi rapporti. Insomma abbiamo cercato di avvicinarci il più possibile alla verità.
Tra dieci giorni si voterà in Birmania, che accadrà?
Ora i militari pensano di poterla controllare, ma non è così. I suoi sentimenti sono puri, la sua lotta è per la libertà d’espressione, ma anche per le condizioni di vita. A Suu Kyi non interessa la gloria o il potere, e non potrà essere comprata. La sua battaglia è nobile e il regime militare è ormai con le spalle al muro. Questa eroina è l’unica che può tenere insieme un paese che conta 120 etnie, l’unica che possa governare con il suo messaggio di pace.
Che utilizzo ha fatto dei materiali di repertorio?
Ho visionato 200 ore di girato, fornitemi da giornalisti, che sono state utili in fase di sceneggiatura per documentarmi sulla vita, i costumi, il modo di comportarsi del popolo birmano. Le uniche immagini che ho utilizzato sono quelle della rivolta dei monaci, una rivolta nata con il passaparola e che ha coinvolto 150mila persone.
A parte i protagonisti, la malese Michelle Yeoh e l’inglese David Thewlis, e gli altri coprotagonisti, le comparse sono tutte birmane?
Sì le ho trovate in un centro di accoglienza in Thailandia al confine con la Birmania, da cui sono fuggiti attraverso la giungla. Non avevano mai visto una cinepresa né mai erano stati sul set.
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