Una lunga sequenza, in bianco e nero e non parlata, con Jean Reno protagonista, per presentare Luc Besson, alla Festa protagonista di una masterclass. E’ un estratto da Le Dernier Combat, opera prima di Besson, del 1983, a cui l’autore racconta di pensare con “nostalgia, ma è roba vecchia. La cosa interessante è che oggi non si riescano a fare film così: all’epoca ci dicevano ‘no’ dappertutto, gente di cinema ma anche le famiglie, e noi tutti avevamo 18-20 anni e al ‘no’ rispondevamo ‘d’accordo’, ma lo facevamo lo stesso. Il primo giorno di lavorazione avevamo 300 euro di oggi, bastavano a pagare i primi due pasti della troupe, per cui dovevamo girare materiale fantastico per impressionare la troupe, per poter poi dir loro che non avremmo avuto soldi per pagarli i giorni a seguire: sono rimasti per 11 settimane. Il problema era quindi pagare i pasti e s’iniziava a girare alle 12 perché prima cercavamo i soldi per quelli”.
Questi film – che ha vinto il Festival di Avoriaz, con la Giuria allora presieduta da De Niro, e distribuito in Italia solo dopo il secondo film di Besson, Subway – racconta una storia ambientata in un futuro distopico ed è stata resa suggestiva anche dal “suono, per cui avevamo grosse ambizioni: era girato con una Camflex, molto rumorosa come macchina, e un rumorista francese ha riscritto un mucchio di cose, io ero affascinato da lui. Il suono delle ruote del carretto tirato in una scena da Jean Reno finisce per ridicolizzarlo: un omone ‘alla Schwarzenegger’ contrastato da un rumorino, straordinario effetto”.
Ma cos’è la fantascienza, per lui, inventore anche dei Minimei: “Penso che un film in sé sia già fantascienza. Ho lasciato la scuola presto, leggo pochissimo, ma amo guardare la gente e la Natura; la fantascienza che amo è dire: reinventiamo tutto ciò che è impossibile; amo la leggerezza della fantascienza che può ridefinire ogni cosa; una libertà che adoro, un campo magico per me. Ho sempre l’impressione di essere nel sogno“.
E, a proposito di fantascienza, Besson racconta di come “Il Quinto Elemento ho cominciato a scriverlo a 16 anni: mia madre viveva in campagna e non è un’età in cui vuoi vedere le mucche dalla finestra, così scrivere era il mio modo di inventarmi un’altra vita, la mia fuga non era con la droga ma con i taxi volanti. Ho scritto 400 pagine che ho conservato, per 15 anni”.
Una fantascienza spesso possibile grazie all’uso del digitale, anche se Besson precisa, tra ironia e disincanto: “Non sono abile con la tecnologia, non mi immischio di certe cose, ci sono persone capaci intorno a me: per Valérian c’erano 900 persone a lavorare sul digitale. Nell’immaginario abbiamo quasi una seconda visione: io ero capace di dire cosa ci fosse sul green screen ma non di premere nessun tasto. Istintivamente mi rifiuto di entrare nella tecnologia, ho paura di perdere la visione: non voglio saperne nulla”.
Sono 18 i film che ha diretto, tra cui Nikita e Léon: ne ha scritti circa 60, e così serie come Taxxi, e quelli prodotti sono almeno 150. Besson, dunque, più regista, produttore o scrittore? “Scrivere, amo scrivere. Perché nessuno rompe le scatole in quella fase. Per scrivere mi alzo verso le 4 del mattino e lavoro fino alla colazione dei miei figli, tutti i giorni, è la mia ginnastica personale; quando la società me lo impedisce divento nervoso. È come la mia droga. La messa in scena mi diverte, ma è molto faticosa: bisogna trovare risposte immediate per cose future, poi l’attrice ti interrompe per chiedere qualcosa su una frase, il set richiede una sorta di sensibilità permanente, quindi la sera torni a casa, in tv guardi l’inaugurazione di un giardino botanico e ti commuovi, o addirittura porto giù la spazzatura e mi ricordo quando lo facevo e mia mamma mi dava 20 centesimi e lì… Ti si chiede una mascolinità che sfinisce: è appassionante ma ti esaurisce proprio. Di tutti i film fatti, per tre – Le grand bleu, Giovanna D’Arco e Subway – ho terminato con un collasso, per cui è arrivato un medico e mi ha fatto un’iniezione per farmi riprendere”.
E, tornando al ruolo da produttore, Luc Besson confessa di non essere che “fiero dei registi, spesso non avrei potuto far meglio, come per Danny The Dog con Morgan Freeman di Louis Leterrier; o Taken, che è perfetto. Io sono sempre ammirato dai lavori di Leconte o Giannoli: cuciniamo nella stessa cucina ma non cuciniamo le stesse cose”.
E la critica? “Ci sono posti come Cannes in cui i critici aspettano quel momento per tirarti le pallottole, bisogna sperare di non avere il film proiettato nei primi tre giorni, perché poi cominciano ad andare in spiaggia e si calmano”, ironizza Besson, un uomo che si comunica molto diretto e “di pancia” in questa masterclass. “Un film armato può andar bene a Cannes ma Le grand blue, per esempio, era disarmato: c’erano 250 pagine piene di merda sul film, le ho conservate. Prima di Cannes scrissi una lettera ai giornalisti, dicevo di non essere pronto e gli davo appuntamento sul grande schermo di Cannes, non ci credettero: ero onesto ma anche molto ingenuo, quindi già morto prima di arrivare là”.
Luc Besson, in carriera, ha dimostrato una versatilità creativa e produttiva, passando da opere indie a grandi film hollywoodiani e, a proposito di questa “discontinuità” fantastica, spiega: “Le abitudini fanno male alla creatività. M’interessa dire ai giovani che vogliono fare cinema: avete un telefonino, un computer, YouTube, non avete bisogno di noi vecchi. Durante la pandemia io stesso ho girato un film completamente col cellulare: l’anno prossimo vedrete June et John e direte che ‘non è possibile’, e invece sì, l’ho fatto col cellulare. Ho appena terminato un altro film, Dogman: ecco, ho cambiato tutta la troupe, spiegando loro rispetto e affetto, ma dovevo cambiare, per non abituarsi, mai. E poi, per chi scrive, dico: non scrivete più di tre ore al giorno, non serve a niente! Uscite, guardate gli alberi, il cielo, caricatevi con queste immagini, e fatelo tutti i giorni”.
L’autore continua raccontando: “Mi piace esplorare, imparare, faccio un po’ fatica a tornare sullo stesso tema: il genere che non frequenterei è l’horror; il western mi piace guardarlo; ma, a parte questi generi, mi piace spiazzare. Per un regista non so se si possa parlare di influenza da parte di qualcuno: mi piace l’architettura di Kubrick ma credo mia madre mi abbia ispirato più di lui. Però a Kurosawa, a Miloš Forman, mi inchino, ma anche agli ottimi Garrone, Dino Risi e Fellini. L’altro giorno ho rivisto Il gattopardo di Visconti, sono caduto a terra e mi son detto: ‘che cosa straordinaria!’. Sono film ‘fatti a mano’, si sente la Sicilia, le tende nel vento: fa bene ogni tanto vedere cos’è veramente il cinema. Mi piace il fast food ma ogni tanto uno stellato è d’obbligo”.
E, restando sul cinema italiano, continua precisando: “Matteo Garrone è molto, molto bravo. Del passato ce ne sono molti in Italia e se dovessi finire lassù… non vorrei dover discutere con nessuno ma beh, certo, Fellini… e poi c’è Una giornata particolare di Scola. Leone è un altro gigante”.
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