Loznitsa, tutto il mondo è un carcere

Il regista ucraino ha portato in concorso a Cannes il suo Krotkaya, atto di denuncia contro l'arbitrio ispirato a una novella di Dostoevskij


CANNES – E’ indignato, “fuori di sé”, il regista ucraino Sergei Loznitsa, a Cannes in concorso con Krotkaya. “A questo caso si applica certamente il mio odio contro gli atti arbitrari”. Sta parlando delle perquisizioni subite a Mosca, sia nella sua abitazione che in teatro, dal collega russo Kirill Serebrennikov. Un atto simile a quelli che perseguitano la sua eroina lungo le quasi due ore e mezza del film. Che è la storia di una donna taciturna e remissiva che parte dal suo villaggio per raggiungere in Siberia la prigione dove è detenuto il marito, dopo che le è tornato al mittente un pacchetto di cibo e vestiti spediti all’uomo. Ma il viaggio la catapulterà dentro un mondo assurdo e violento, dove la prevaricazione sembra essere l’unica moneta di scambio: poliziotti arroganti, impiegati senza cuore, una burocrazia impenetrabile, un popolo spinto da impulsi primordiali, con ben pochi sprazzi di umanità e solidarietà. E’ un universo che si potrebbe definire kafkiano ma che attinge piuttosto alla grande tradizione russa, in particolare alla novella di Dostoevskij La mite, che aveva già ispirato nel 1969 il film di Robert Bresson Une femme douce interpretato da Dominique Sanda. 

L’ucraino Loznitsa è conosciuto soprattutto per i suoi documentari, tra cui i recenti Maidan (2014, leggi la nostra intervista) e Austerlitz (2016): “Non faccio distinzioni rigide, considero i miei documentari come finzione e viceversa perché ogni film ha a che fare con ciò che ho visto e sentito. Ad esempio quando in Krotkaya si narra l’episodio dell’uomo che ritrova la mano mozzata della moglie, quella è una storia vera, che ho sentito raccontare sull’autobus qualche anno fa. Ci sono tante  cose reali che trovano posto nel film”.

Costruito come una favola dark con un’escalation che ci porta dal minimalismo iniziale verso un finale turbinoso, eccentrico e iperviolento (con la lunga scena grottesca dell’incubo della protagonista), il film contiene un chiaro intento di denuncia. “Ma non avevo in mente nessun personaggio politico reale”, replica Loznitsa a chi gli chiede se ce l’abbia per caso con Putin. E sulla scena del sogno: “Il grande banchetto in cui i delegati del popolo sono seduti accanto ai rappresentanti del potere ci mostra come tutti siamo responsabili, non solo chi governa ma anche chi condivide quelle scelte”. Un ritratto agghiacciante della Russia contemporanea? “No, non descrivo la Russia, l’arbitrio e la prevaricazione sono temi attuali in tanti paesi e ben approfonditi dalla letteratura e dalla cultura russa. Sarebbe come dire che Gargantua e Pantagruel è una descrizione fedele della Francia dell’epoca di Rabelais. Il cinema è un’arte visiva e si ha l’impressione che ciò che vediamo sullo schermo sia la verità, diciamo allora che il grottesco è il modo migliore di esprimere la realtà politica di oggi”. 

Solo una coproduzione tra sei paesi (Francia, Paesi Bassi, Germania, Lituania, Russia e Ucraina) ha reso possibile questo ambizioso progetto a cui Loznitsa pensa dai tempi di My Joy (2010) che considera in qualche modo come la prima parte di un dittico: “E’ stato un lavoro infernale, difficilissimo montarlo”, ammette. 

Quanto all’interprete principale, Vasilina Makvtseva, che attraversa tutti gli orrori e le umiliazioni con lo stesso volto impassibile, si è trovata a lavorare con non professionisti, tutto il mondo che ruota attorno alla prigione di Daugavpils, in Lettonia al confine con la Russia, città popolata da diverse etnie (russi, bielorussi, lettoni, lituani, ebrei). “Circa il 70% delle persone che si vedono nel film – racconta il regista – hanno avuto in qualche modo l’esperienza diretta del carcere, come detenuti o guardie o parenti di qualche criminale. Uno dei miei migliori attori era stato detenuto per 37 anni. L’unico problema è stato tenere divise sul set le gang rivali e rispettare le gerarchie per evitare problemi”. 

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25 Maggio 2017

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