Alejandro Loyaza Grisi, il regista boliviano all’esordio con Utama – Le terre dimenticate (leggi qui il nostro articolo sul film) ha fatto tappa a Roma per il Festival del Cinema spagnolo e Latino Americano. Nell’occasione gli abbiamo rivolto alcune domande sul percorso cinematografico e umano che l’ha portato a realizzare un’opera prima così matura – non a caso Gran Prix al Sundance 2022 e in corsa per l’Oscar per la Bolivia.
Prima di Utama ha lavorato principalmente nel cinema documentario. E in effetti, sebbene questo sia un film di finzione, ha un taglio documentaristico. Crede che questa ibridazione di generi possa diventare la sua cifra stilistica?
Sono molto contento che il film sembri un documentario, perché significa che la finzione è così ben fatta che lo spettatore può viverla come se fosse vera. D’altra parte la problematica che racconto nel film è vera: ci sono persone che vivono come i protagonisti, e quella terra (l’altopiano boliviano, ndr) è in pericolo a causa del cambiamento climatico. E ovviamente il cambiamento climatico è più che mai vero. Ci tengo però a dire che il film è interamente di finzione, è stato scritto dalla prima all’ultima scena – la novantaseiesima, se non ricordo male e gli attori recitano una parte, anche se la coppia sperimenta nella ‘vita vera’ un’esperienza simile a quella narrata. Sono felice che per Utama sia così, che questa ibridazione sia evidente, ma non saprei dire, a oggi, se diventerà la mia cifra stilistica, perché ci sono molti generi che amo e che vorrei sperimentare.
A proposito degli attori: sono un assoluto punto di forza del film. Ho letto che c’è voluto un po’ per convincerli ad accettare. Hanno condiviso con lei la loro esperienza riguardo al cambiamento climatico, che è il tema centrale del film?
Non proprio. I due attori-non attori, José Calcina e Luisa Quispe, proprio come i loro personaggi nel film, non sono particolarmente loquaci. Quando hanno retto il copione, però, mi hanno detto che trattava un tema estremamente vicino a loro, e alla realtà del loro villaggio. Io, per conto mio, sono arrivato molto preparato alla realizzazione del film, questo grazie ai viaggi e alle esplorazioni che ho compiuto durante il mio periodo da documentarista, dove ho toccato con mano gli effetti del cambiamento climatico sulla mia terra, la Bolivia. Una figura fondamentale nel mio rapporto con i due attori è il nipote della coppia, che è stato decisivo per convincerli ad accettare le parti, e mi ha aiutato molto anche in tutta una serie di aggiustamenti che hanno reso quanto più aderente la storia raccontata alla realtà personale dei due attori. Ci tenevo a creare una vicinanza tra personaggi e attori, anche per metterli maggiormente a loro agio durante le riprese.
Utama è molte cose: un film d’amore, un film sulla famiglia, ma anche un film di denuncia, che mostra un’emergenza in atto. Quale pensa sia il ruolo del cinema in questo processo di presa di coscienza da parte di tutti?
Credo che il cinema sia uno strumento estremamente potente, che proprio per questo va utilizzato in modo responsabile. Il cinema ci aiuta a capirci meglio, ci permette di viaggiare in luoghi dove sarebbe possibile viaggiare – come l’Altopiano boliviano -. La caratteristica che forse preferisco del cinema è che non ha bisogno di un traduttore: riesce a parlare direttamente al cuore. Questo ci permette di metterci davvero nei panni di qualcun altro. Credo quindi che il cinema possa aiutare la società intera a diventare una società migliore sfruttando proprio questo processo di comprensione dell’altro, che altrimenti è più difficile da attuare. Nel caso di Utama, il mio intento era far percepire il problema del cambiamento climatico e delle traumatiche migrazioni che questo comporta in un modo estremamente umano.
Utama ha vinto il Gran Prix al Sundance e rappresenterà la Bolivia agli Oscar: come ha vissuto questo immediato riconoscimento?
È, ovviamente, una sensazione molto bella, significa che hai fatto il tuo lavoro bene. Ci tengo però a specificare che si tratta di un riconoscimento all’intera troupe, perché il cinema è un’arte collettiva, e ognuno porta il suo meglio. Certo, alla fine la firma è quella del regista, ma i meriti, nel profondo, vanno ricercati in ogni professionista che ha lavorato al film. Proprio questa è la principale gratificazione: la sensazione condivisa di essere premiati per ciò che si è fatto. Ovviamente questi riconoscimenti rappresentano anche una responsabilità, perché ora rappresento la Bolivia, e, trattandosi del mio primo film, mi sento in dovere di mantenere un livello molto alto nei prossimi film che farò.
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