Dice di non aver voluto realizzare un film politico, anche perché Lorraine Lévy non si sente né israeliana né palestinese, ma solo una regista ebrea che firma un’opera, Il figlio dell’altra, sulla speranza in una terra ferita a morte dalla guerra. Per lei un film è un dialogo, un mezzo per comprendere l’umanità dell’Altro. E proprio il dialogo è nella pellicola l’unica via d’uscita tra le due famiglie di Tel Aviv e dei territori occupati della Cisgiordania, tra i due popoli in conflitto perenne e ora divisi da un alto muro in cemento armato e check point. La vicenda narrata dall’antiretorico Il figlio dell’altra – in sala con Teodora dal 14 marzo dopo essere stato all’ultimo Torino Film Festival – ha qualcosa di surreale e ironico nello stesso tempo. Per uno strano scherzo del destino i genitori israeliani Orith (Emmanuelle Devos) e Alon (Pascal Elbé), funzionario della Difesa, scoprono per caso che il loro primogenito Joseph (Jules Sitruk) non è il loro figlio biologico, ma è stato scambiato appena nato in clinica con il palestinese Yacine (Mehdi Dehbi). Inevitabile il confronto con l’Altro, cioè i genitori di Yacine, Leila (Areen Omari) e Bilal (Mahmood Shalabi). In scena irrompono le identità e le certezze di ognuno, accompagnate dalla diffidenza e l’ostilità di lunga data, nonché dure a morire. Ma un futuro diverso sembra essere nelle mani delle donne, in quanto madri, e soprattutto nelle nuove generazioni. Il figlio dell’altra fra tre settimane verrà presentato al Festival di Tel Aviv, dopo essere stato a quello di Gerusalemme e dopo aver vinto il Gran Premio al festival di Tokyo.
Che film ha voluto realizzare?
Non un film partigiano o a favore, ma che avesse come speranza il dialogo tra le due parti. Ho così rispettato le due identità come si vede nello scontro verbale dei padri di Joseph e Yacine. I due, al loro primo incontro, non possono non parlare di politica, i toni si fanno subito alti e ognuno vuole avere l’ultima parola. Un crescendo di voci che si sovrappongono, ma non volevo nascondere nulla e ho cercato di ascoltare entrambe le verità. “Non dite che siamo pro Israele o pro Palestina, ma che siamo a favore del dialogo”, afferma lo scrittore israeliano Amos Oz.
L’ha incontrato mentre preparava il film?
No, ma condivido il suo pensiero che la soluzione del conflitto israelo-palestinese è un compromesso storico tra i due popoli, con ognuno che rinuncia ad alcune legittime pretese. In Francia è uscito “Imaginer l’Autre”, una piccola raccolta di suoi interventi quando venne in visita e alcune copie di questo libro le ho date ai vari responsabili della troupe, perché capissero quale fosse il messaggio del progetto artistico in cui erano impegnati.
Ha fatto leggere la sceneggiatura a un altro padre spirituale?
Allo scrittore algerino Yasmina Khadra (pseudonimo femminile di Mohammed Moulessehoul, ndr.), una voce autorevole del mondo arabo che ho incontrato e di cui ho molto apprezzato il libro “L’attentato”.
Quanto è reale la vicenda da lei narrata?
E’ in parte ispirata alla cronaca, e in parte alla finzione. Ho letto e saputo di scambi neonati avvenuti durante la Guerra del Golfo, nel 1991. Mentre cadevano i missili Scud iracheni in territorio israeliano, è accaduto infatti che i reparti maternità di alcuni ospedali venissero evacuati in modo precipitoso. Ho raccolto testimonianze di adolescenti, all’epoca scambiati, ma che non conoscono i loro genitori biologici.
Il film ha convolto una troupe israelo-palestinese?
Sì ed è stato un film fortemente partecipato e voluto da tutto il cast. Ricordo che il giorno in cui dovevo fare i provini per il ruolo della madre palestinese, ci fu un attentato in una vicina stazione di bus. Nonostante l’accaduto, scelsi di non annullare il casting che prevedeva dodici attrici palestinesi. Alla fine se ne presentarono solo tre, tra cui Areen Omari che veniva da Ramallah e aveva camminato per alcune ore sotto il sole. La traduttrice se ne era andata tuttavia, durante il provino, solo guardandola ho capito che il ruolo di Leila era suo. Del resto sul set si respirava quel sentimento di fratellanza che purtroppo alcune minoranze inquinano.
Nel film i giovani Joseph e Yacine sono il simbolo di questa fratellanza.
Ho incontrato giovani palestinesi e israeliani, entrambi hanno voglia di spensieratezza e tranquillità, un diritto sacrosanto alla loro età. Ripomgo la mia fiducia e speranza nelle giovani generazioni e in quelle future, una volta che i vecchi lasceranno loro spazio.
Ma anche nelle donne, nelle madri.
Orith e Leila, a differenza dei padri, capiscono che i figli che hanno allevato continuano ad essere i loro figli; che ora c’è un altro figlio per ciascuna di loro e non possono ignorarlo, né rifiutarsi di conoscerlo e di imparare ad amarlo.
Che dice la canzone cantata dai genitori palestinesi e dai lori figli dopo il pranzo?
Si tratta di una canzone araba del folclore antico che parla di una donna che torna a casa. Questa canzone di per sé non è importante, perciò non è tradotta con i sottotitoli. Quel che mi interessava era la situazione con tutti loro che la condividono intorno a un tavolo.
E’ stato difficile trovare il finale?
Non era semplice trovare una conclusione per un film le cui radici stanno nel conflitto israelo-palestinese che pare non avere una fine. A metà del film c’è una panoramica a 180 gradi dalla terrazza di un palazzo diroccato dove Yacine si è isolato. Ho scelto di completare la panoramica, all’inverso, sempre dalla stessa location, ma questa volta c’è Joseph, con la voce di Yacine. E’ come se ciascuno dei due fosse la metà dell’altro.
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