Un esordio importante quello del 48enne venezuelano Lorenzo Vigas che con il suo Ti guardo (Desde allà, letteralmente Da lontano) ha dato l’anno scorso all’America latina il primo Leone d’oro. Già perché questo dramma intimo e sociale nella Caracas caotica, rumorosa e delle ineguaglianze, meravigliosamente fotografato e interpretato, s’avvale di un team composto da: lo sceneggiatore messicano Guillermo Arriaga, il direttore della fotografia cileno che ha lavorato con Pablo Larrain, così come cileno è uno dei due protagonisti, Alfredo Castro, grande interprete sempre per Larrain, i produttori messicani, e la montatrice brasiliana.
In Ti guardo, ambientato in un Venezuela dalle forti differenze sociali, Alfredo Castro è un anziano solitario borghese, un esperto odontotecnico, incapace di relazionarsi con gli altri e con il mondo, schiacciato da un passato inquietante e dominato da un padre violento ora assente. Da lontano, come recita il titolo originale, Armando preferisce guardare, senza toccare, giovani sottoproletari che si spogliano a pagamento. Tra questi c’è il giovane Elder (Luis Silva), un ragazzo di strada, orfano di padre, apparentemente sicuro di sé, dall’energia incontrollabile. Quello che dovrebbe essere un fugace incontro si trasforma lentamente in un rapporto tra due solitudini, che si rafforza per l’assenza di una figura di riferimento. Armando e Elder rappresentano due società, due mondi lontani uniti da un insolito rapporto padre-figlio, da un amore omosessuale proibito e impossibile.
Ti guardo esce in 50 copie il 21 gennaio distribuito da Cinema, la nuova creatura di Valerio De Paolis che ha portato in sala la Palma d’Oro Dheepan di Jacques Audiard e l’Orso d’oro Taxi Teheran di Jafar Panahi.
Vigas come ha lavorato sul piano dello stile per rendere la difficoltà di Armando a relazionarsi con gli altri?
Il timone del film è la psicologia di Armando: un individuo fisicamente presente mentre passeggia per le strade di Caracas, ma emotivamente intrappolato nel passato. C’è e non c’è. Così ho avuto l’idea di introdurre queste inquadrature sfuocate per dare la sensazione che lui sia quasi uno spettro. Lo vedi nell’inquadratura e un attimo dopo scompare nella folla. Il film è guidato dalla psicologia di Armando e la sua storia si colloca nella realtà di Caracas caratterizzata da tanti ragazzi di strada come Elder e altrettante madri che preferirebbero che i loro figli fossero assassini o ladri piuttosto che omosessuali. Il centro del racconto è quest’uomo assolutamente incapace di stabilire una comunicazione emotiva e affettiva con l’altro. Il problema è stato come dare questa chiave narrativa al film.
Ha scelto che Armando sia un odontotecnico alle prese con protesi dentarie. Perché?
I denti sono l’unico elemento del corpo umano che sopravvive per migliaia di anni, rappresentano un’immagine collegata alla morte. Lo spettatore vedendo queste protesi ha la sensazione che prima o poi una morte avverrà, una sorta di anticipazione.
Come ha lavorato con gli attori?
Innanzitutto c’era una sceneggiatura forte che una volta sul set va dimenticata. Castro, un attore perfetto per il personaggio di Armando, aveva il copione, non tutti gli altri interpreti. In particolare Silva (Elder) conosceva le battute venti minuti prima di girare così rimaneva poco tempo per impararle. Non volevo infatti che un attore come lui, non professionista, razionalizzasse i dialoghi e così perdere la spontaneità e la freschezza. Un metodo di lavoro non privo di rischi che ha comportato molta improvvisazione e tanti cambiamenti sul set, a volte suggeriti da Castro, a volte da Silva.
Il giovane attore e il suo personaggio rimandano a Accattone e Mamma Roma di Pasolini, è un’impressione corretta?
Sul piano tematico i primi film di Pasolini sono stati un riferimento molto importante, sul piano formale il riferimento è Bresson. E poi c’è Haneke, in particolare il film La pianista con Isabelle Huppert nei panni di un personaggio incapace, come Armando, di stabilire una relazione affettiva normale con l’altro.
A che cosa di Bresson si è ispirato?
Il suo lavoro sulla struttura temporale del film e anche sul non detto e la scelta di non usare mai il sentimentalismo.
Come ha trovato Luis Silva, allora 19enne?
Luis veniva da un quartiere povero e pericoloso, molto più duro di quello messo in scena. L’ho contattato attraverso un’agenzia di casting perché ha l’ambizione diventare attore. Sono rimasto colpito dal suo volto, dalla sofferenza espressa dal suo sguardo e da un autentico istinto animalesco che trasmette. Una volta incontrato, ho deciso di non fare nessun provino con la macchina da presa, se non il giorno prima del set, quando già l’avevo scritturato.
Nelle note di regia lei si dice affascinato dal tema dell’essere genitori, come mai?
Qualcuno dice che non siamo noi a scegliere le nostre ossessioni ma viceversa. Io sono sono stato scelto da questo bisogno di parlare dell’essere genitori, in particolare della paternità. Ma non ci sono riferimenti biografici nel film. Ho avuto un padre importante, morto due anni fa, era un pittore famoso come Burri o Fontana e con lui ho avuto un rapporto di grande affetto e comprensione. Il riferimento è invece con la figura paterna prevalente nel continente latinoamericano: un padre che procrea e poi è assente. Le nostre società sono prevalentemente matriarcali, perché questi uomini spesso se ne vanno via dalla famiglia. E’ la storia di Silva il cui padre è stato ucciso quando era piccolo, è la storia di migliaia di ragazzi.
Un tema che continuerà ad approfondire?
Lavorerò sull’ultimo capitolo di questa trilogia sulla paternità o l’assenza del padre, iniziata con il cortometraggio Los elefantes nunca olvidan, che si può vedere su Youtube, e si concluderà con La caja le cui riprese cominceranno settembre prossimo.
Il film come è stato accolto in Venezuela?
Uscirà ad aprile e immagino reazioni accese e polemiche perché il film mette il dito nella piaga di problematiche tabù nel mio paese non ultima l’omofobia. Un film importante per un paese che soffre di una crisi di comunicazione, ormai interrotta, tra governo e la popolazione, e tra le varie classi sociali. Credo anche che lo scopo di un’opera d’arte sia di accendere il dibattito, primo passo verso il cambiamento.
Si può parlare di una new wave latinoamericana?
C’è di sicuro un filo rosso che lega oggi le cinematografie dell’America latina ed è la mancanza di paura nel raccontare delle storie, ci sono il desiderio e il coraggio di un racconto onesto e autentico. Non c’è invece un tratto comune nella forma. E non credo si possa parlare di nouvelle vague latinoamericana, piuttosto è cambiata l’attenzione che il mondo rivolge a queste cinematografie che in verità godono di buona salute già da tempo.
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