Lisa Bosi: “I Gaznevada sono tornati, cattivi come un tempo”

Gli invincibili guardiani della libertà del mondo sono tornati nel documentario 'Going Underground', presentato al Seeyousound e nelle sale fino al 26 febbraio


Folli, geniali, miseri e disperati: sono i Gaznevada, musicisti o meglio “fabbricanti di sogni”. È stato presentato al Seeyousound International Music Film Festival Going Underground, il film di Lisa Bosi incentrato sul fenomeno musicale e culturale chiamato Gaznevada, una delle più innovative band italiane degli anni ’80. Il documentario uscirà nelle sale come evento dal 24 al 26 febbraio, distribuito da Wanted Cinema.

Con uno stile registico che ci vuole portare indietro a quegli anni unici e rivoluzionari – attraverso il lavoro d’archivio e la messa in scena di sequenze realizzate ad hoc con gli stessi Gaznevada – l’autrice ci porta a scoprire non solo la storia di un gruppo di ventenni desiderosi di cambiare il mondo con la musica, ma anche quella del nostro Paese, investito da un movimento artistico senza precedenti, che vedeva nelle “cantine” di Bologna il suo cuore pulsante.

Lisa Bosi, cosa si prova a fare parte di un festival unico nel suo genere come il Seeyousound ?

Ieri sera c’è stata la proiezione che andata molto bene perché era sold-out e mi sembra che il pubblico abbia accolto molto positivamente il film. Sono molto contenta. Giovedì sera ci sarà una replica. Ci saranno anche i Gaznevada con un after show dedicato con anche Johnson Righeira, una serata particolare e bella per il festival. Ho insistito molto per andare a questo festival, ci tenevo perché unisce musica e cinema. Sono molto orgogliosa di essere l’unico documentario italiano in concorso nella sezione internazionale. Vedremo come andrà, però, già esserci è stato veramente un grande onore.

Come è nato questo progetto?

Ho incontrato i Gaznevada in una serata al DAMS di Bologna, che, ironia del destino, è stato tanto importante in quegli anni, perché hanno fatto questa riedizione sintetica del loro album più famoso, Sick Soundtrack, che Rolling Stones mette al 42° tra gli album più importante della musica italiana. Ho avuto la fortuna di cenare con loro e ho subito capito che la loro era una storia pazzesca. Da documentarista volevo raccontarli. Nel film provo a fare un viaggio nella loro vita, nella loro giovinezza in un periodo molto particolare per l’Italia intera, in cui passiamo dagli anni di piombo, con la Bologna del terrorismo, all’edonismo degli anni ’80, dove cambia tutto. Con loro, a disegnare, c’era Andrea Pazienza era una vera factory italiana.

Come avete collaborato nella realizzazione?

Da lì è iniziato un periodo di interviste solo audio, li facevo venire da me e mi raccontavano cosa era successo. Da questo materiale è nata la sceneggiatura che io ho scritto, questi voice over che sono sostanzialmente le cose che mi hanno raccontato, ma un pochino più romanzate. Bisognava essere un po’ più epici, alle volte più concisi. In questo documentario non ci sono interviste sedute, non ha quella forma lì. È stato molto emozionante rileggere la stesura insieme. Per fortuna si sono riconosciuti nel modo in cui avevo messo giù la loro storia, anche nell’estetica che ho usato.

Come avete lavorato a queste scene in cui i Gaznevada compaiono interpretando i personaggi di loro stessi e che danno un forte carattere al film?

Di formazione io sono un architetto, quindi per me è tutto estetica, nella vita in generale. È estetica la fotografia molto innaturale, i colori acidi che sono quelli che usavano loro, la scrittura stessa di queste scene in cui è come se loro stessero tornando sulla Terra. All’inizio del film vengono catapultati in questo luogo lunare. Loro poi sono stati bravissimi. Tornano e sono sempre loro: gli invincibili guardiani della libertà del mondo.

È un effetto straniante vedere i Gaznevada – che credevano di morire giovani – così invecchiati.

Non c’è stata nostalgia, perché fin dall’inizio era chiaro che non ci sarebbe stata una reunion. Due di loro sono ancora Gaznevada e si sono trasformati anche in questa fase della loro vita. Ciro Pagano e Marco Bongiovanni sono due DJ molto famosi. Questo è molto sintomatico: da sette sono diventati due seguendo quello che la società gli mette davanti. La musica cambia con la società. Sono scene molto nell’estetica dei Gaznevada, loro non volevano essere simpatici. Erano punk, cattivi. Preparavano le loro performance con “crudeltà”.

C’era anche un atteggiamento di superiorità. Dicono: “ci sentivamo dei geni” destinati al successo.

Sì, quando hai 20 anni, credi talmente tanto in quello che stai facendo e sei la factory più famosa della città, ti senti un genio. Si deve entrare nella loro giovinezza e loro guardano a tutto ciò senza rimpianti. Quello che volevo fare io è sospendere il giudizio dello spettatore. Quando si parla di droghe è sempre complicata la situazione e nel monologo finale si anticipa di vent’anni Trainspotting: c’è chi sceglie la vita e chi no. Però lo spettatore può chiedersi: sto vivendo davvero la vita che ho desiderato per me? Va bene così? È bello uscire dal cinema riflettendo anche sulla propria di vita.

I Gaznevada sono riusciti a creare “un’interferenza” nel mondo che li circondava. Sarebbe possibile riuscire ancora oggi a fare qualcosa del genere?

Io voglio rimanere positiva, perché le nuove generazioni ci stanno provando a raccontare la loro storia. È chiaro che quando le storie degli anni ’70 e ’80 hanno su di noi un fascino pazzesco. Mi viene da risponderti con una frase di Elio Fiorucci: in una società dal pensiero veramente libero, l’avanguardia è la normalità. Ecco allora c’era davvero un pensiero libero, oggi forse non siamo così liberi e l’avanguardia diventa una rarità.

Su quali archivi ha lavorato?

Sono riuscita a mettere le mani su un archivio importantissimo, quello di Red Ronnie, grazie alla mia produzione, Sonne Film. Un altro archivio importante è stato quello della cineteca di Bologna, dove ci sono tanti filmati ancora in pellicola, che non sono mai stati digitalizzati. Poi, ovviamente, gli archivi della Rai, che sono stati molto utili. Perché quando li vedi con Pippo Baudo capisci, in qualche modo, che sono davvero diventati famosi. Poi ovviamente si aggiungono i loro archivi privati.

Per un artista, anche una regista come lei, è inevitabile tendere verso il pop, come hanno fatto i Gaznevada?

Secondo me ognuno internamente ha un limite oltre al quale non riesce ad andare. Nel documentario si vede come due Gaznevada vanno avanti tranquillamente, mentre il cantante dice di non farcela più. Era arrivato al suo limite. Anche io credo di essermi sempre mossa nell’ambiente dell’arte performativa e secondo me i miei lavori, questo come Disco Ruin, strizzano un po’ l’occhio al pop, perché è giusto che le cose vengano divulgate. I miei film possono essere apprezzati sia da un ambiente artistico che popolare, parlando di quarant’anni di discoteca italiana.

Più che un limite, dunque, una dimensione.

Esatto. Ti senti rappresentato da certe cose e da altre no. Quando fai un documentario è un’operazione artistica, è come se nascesse tuo figlio e tu devi portarlo in giro a testa alta. Orgogliosa di quello che hai fatto.

Quali altre storie vuole raccontare in futuro?

Sto già lavorando a un progetto di documentario e uno di fiction. È presto per parlarne, sono agli albori di queste due nuove avventure.

autore
24 Febbraio 2025

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