La tedesca Beta Film l’ha acquistato per distribuirlo nelle sale in una versione da 180′ e una società russa progetta di riservargli una sala per un anno intero a San Pietroburgo, mentre in Italia lo vedremo solo in tv. L’ Einstein di Liliana Cavani, evento del Roma Fiction Fest, andrà in onda in due puntate il prossimo autunno. “Rai Cinema l’ha visto, naturalmente, ma non ha preso una decisione su un’eventuale uscita in sala prima della messa in onda”, spiega la produttrice Claudia Mori, che ha realizzato questo raffinato progetto insieme Rai Fiction. Costumi di Lina Nerli Taviani, scene di Giantito Burchiellaro e una sceneggiatura dell’autrice con Massimo De Rita, Mario Falcone e Pino Corrias che si avvale anche della consulenza di un scienziato come Gino Isidori, per questa malinconica biografia del padre della relatività che si concentra soprattutto sul complesso rapporto tra Albert Einstein (Vincenzo Amato) e la prima moglie, Mileva Maric, una valente matematica che contribuì a sviluppare le sue scoperte e venne poi abbandonata dal marito con i due figli, uno dei quali malato di mente. Un personaggio a cui Maya Sansa si è sinceramente appassionata: “Fu la prima donna a mettere piede nel Politecnico di Zurigo in un’epoca in cui la scienza era prerogativa maschile. Scelse poi di rinunciare al suo amore per la fisica annientandosi accanto al compagno, che finì per perdere interesse per lei”. Ma è romantico l’epilogo della miniserie con gli anziani Albert e Mileva che si ritrovano “come particelle opposte, che si attirano a migliaia di chilometri di distanza”.
Il cuore del film è proprio in questo rovesciamento di ruoli tra Albert e la moglie.
In un certo senso, sì. Mileva era quasi più brava di Albert, fu lei ad aiutarlo a tradurre le sue intuizioni molto in anticipo rispetto alla scienza ufficiale in modelli matematici. Ma quando lui da Berna venne invitato a Berlino, il legame iniziò a sfilacciarsi: Mileva era a disagio lontana dalla Svizzera e il marito era sempre più attratto dalla cugina, donna ambiziosa e mondana interpretata da Sonia Bergamasco.
Avete puntato soprattutto sulla dimensione privata dell’uomo pubblico.
Einstein è un’icona del XX secolo, uno degli uomini più famosi e conosciuti. Eppure non si sa quasi nulla del suo privato anche se esistono varie biografie anche recenti. Era uno scienziato allo stesso tempo moderno e antico, laureato in filosofia, si poneva le stesse domande che si erano posti Pitagora e Anassagora sull’universo e sulla nostra destinazione. Oggi i fisici lavorano in èquipe, lui era un solitario, iniziò rubando i momenti di studio al lavoro nell’ufficio brevetti di Berna. Ebreo, venne perseguitato dal nazismo, rifugiato in America si impegnò in politica, nel movimento pacifista e contro la bomba atomica. Più di tutto mi ha affascinato una sua frase: “Il vero mistero del sapere è la sua conoscibilità”.
Lei ha spesso scelto il genere biografico. Cosa l’affascina in questo tipo di narrazione?
Mi incuriosiscono i personaggi che hanno compiuto una rivoluzione culturale quasi senza rendersene conto: Francesco, Galileo, Milarepa, ora Albert Einstein.
Il suo ultimo film per il cinema, “Ripley’s Game”, è del 2002. Nel frattempo c’è stata la fiction su De Gasperi. Tornerà a girare per il grande schermo?
Intanto quando faccio una fiction non penso in modo diverso. Anche il mio primo Francesco era un telefilm, per la tv italiana, ed è diventato altro, una cronaca del Duecento girata con la macchina a mano. Comunque tornerò presto al cinema: la Beta è interessata a produrre una storia che ho scritto un paio di anni fa, la storia di una musicista che racconterò con uno stile molto nuovo.
Non è singolare che un’autrice come lei fatichi a trovare una produzione italiana?
Io trovo un po’ ridicolo che si guardi ancora al cinema in termini locali, non c’è solo l’euro che ci unisce come europei. Ripley’s Game era un film americano, girato in Veneto, a Berlino e Londra, è uscito in tutto il mondo e ha avuto critiche molto belle dalla stampa anglosassone. Non era certo una storia italiana. Ma forse il nostro cinema dovrebbe aprirsi di più, non possiamo confinarci nella nostra latinità.
A volte anche storie molto italiane diventano universali, come è successo con “Il Divo” e “Gomorra”.
E’ vero. Quei due film sono molto belli e anzi indispensabili, anche per gli argomenti che toccano. Matteo Garrone lo seguo da tempo e i suoi film mi sono piaciuti da prima di Gomorra, mentre di Sorrentino penso tra l’altro che sia molto bravo a usare il grottesco.
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