Libero De Rienzo


Quando è entrato sulla scena del Festival di Berlino ha provato a fare il disinvolto. Felpa da adolescente, piercing sulle sopracciglia e l’aria di uno che era capitato lì per caso, senza dare molto peso alle esagerazioni dello star system. Poi, quando alla fine della proiezione di A ma soer, il film della regista francese Catherine Breillat (leggi l’intervista), ha visto la sala ammutolirsi nel silenzio e poi esplodere in un clamoroso applauso, anche Libero De Rienzo ha ceduto all’emozione.
Ventitré anni, una passione totale per il mestiere di attore, iniziata con una folgorazione quando aveva quattro anni e si è trovato sul set di un film di Citto Maselli, dove il suo papà faceva l’assistente alla regia. Una carriera iniziata per caso, grazie ad alcune pubblicità di successo che gli hanno dato, come dice lui stesso, “una barca di soldi”. E poi l’amore per le tavole del palcoscenico, l’esperienza con il Living Theatre, un film, La via degli angeli, con Pupi Avati.

Come ti è venuto in mente di partecipare a un provino per un film francese?
E’ stata una cosa da pazzi, visto che non spiccico una parola di francese. Mi sono sentito come un nano da circo che partecipa a una selezione per giocare a basket nel campionato americano. Il provino è stato ridicolo: ero lì che facevo il buffone e fingevo di parlare un francese inventato. Poi alla fine ci siamo ritrovati in quattro in lizza per quella parte. Mi danno la sceneggiatura da leggere e rimango folgorato: in quel copione c’erano almeno dieci pagine di grande letteratura. E’ come un treno che ti arriva nello stomaco.

Ma il problema della lingua rimaneva…
Il giorno dopo aver avuto la parte sono partito per Parigi per studiare. Per un mese e mezzo mi sono alzato alle sette di mattina per fare lezione. Un incubo, l’unica cosa buona di quel periodo sono state le abbuffate di ostriche.

Come è stato il lavoro sul set?
All’inizio è stata tosta. Ti ritrovi catapultato davanti a una macchia da presa, senza aver provato, a dover recitare una scena che è in mezzo al film. E poi abbiamo dovuto fare un lavoro molto duro sul personaggio. Sulla carta il ragazzo che interpreto è il classico sciupafemmine italiano. Il rischio di farne qualcosa di stereotipato, senza luce e senza vita vera era molto forte.

E con gli altri colleghi e la troupe, come ti sei trovato?
Arsinée Khanjian è una donna dal fascino assoluto, come tutti gli armeni, ha negli occhi una rabbia e un orgoglio incredibili. Catherine Breillat, la regista, è una persona splendida: un’adolescente di cinquant’anni. Il clima era accogliente, mi sono sentito molto coccolato. Anche le scene di nudo, che sono molto forti, non mi hanno imbarazzato affatto.

Nessuno screzio?
Su alcune cose abbiamo discusso, tutta colpa della mia visione un po’ sindacale di questo mestiere. Io trovo assurdo che sul set, mentre gli attori si riposano in camper la maggior parte della giornata, ci siano tecnici che si spaccano la schiena quindici ore di seguito. D’altronde i francesi hanno un’espressione che la dice lunga su questo: “il regista è il Dio del set”. Ma a me questa divisione gerarchica del lavoro non sta bene.

Ora che farai?
Niente. O meglio, lavorerò un po’ in teatro, ma da fiction e tv voglio stare ben alla larga.

E il cinema?
In due anni ho lavorato come un matto e sono stato travolto da una serie di progetti. In questo mestiere bisogna stare attenti. Credo che attraverso il cinema si possano far passare messaggi di tutti i tipi e io non voglio recitare in un progetto che serve a imbambolare il pubblico o a dire cose che non condivido. Mi piacerebbe lavorare a un progetto comunicativo eversivo, questo sì. Magari sarà la fine della mia carriera e dovrò inventarmi un altro lavoro per campare. Pazienza, finora sono stato un privilegiato.

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13 Febbraio 2001

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