CANNES – Leonardo Di Costanzo porta con L’intrusa, che passa oggi al Festival alla Quinzaine Des Réalisateurs, una storia di redenzione ambientata nella Napoli della Camorra. Giovanna (Raffaella Giordano, coreografa e danzatrice), donna tutta d’un pezzo, soprattutto eticamente, non solo è una sorta di ‘missionaria’ alla Masseria, centro di accoglienza e volontariato alla periferia di Napoli dove i bambini giocano e sfuggono dalle tentazioni della mala, ma anche una persona che porta avanti le sue convinzioni contro tutto e tutti. Il problema è Maria (l’esordiente Valentina Nannino). È lei l’intrusa in questione: una donna che insieme al suo compagno camorrista e alla loro figlia si è rifugiata, con il consenso di Giovanna, in una fatiscente dependance all’interno del centro di accoglienza. Il marito viene arrestato e Maria pretende di restare nella casa, dove vive con la sua bambina e, nonostante il suo atteggiamento prepotente, viene protetta dalla sola Giovanna che la vede, nonostante la sua connivenza con la camorra, come un’altra vittima, da proteggere alla pari dei bambini. “Quello che mi ha fatto più piacere, che il film sia bello o brutto – spiega il regista – è che la stampa estera non mi ha fatto nemmeno una domanda sulla Camorra o su Napoli, mi dà l’idea che la storia sia universale”.
Magari per i francesi è una storia di banlieue…
E’ una cosa che appartiene anche al loro mondo, e al nostro. A quello di tutti. Ognuno la adatta al proprio contesto. E’ una storia dove cadono le barriere che separano il ‘buono’ dal ‘cattivo’, quello che viene dall’esterno e che noi consideriamo cattivo e pericoloso, ma chi sono i cattivi qui? Maria? Il preside e le mamme che la vogliono escludere? Napoli ha una grande generosità, si presta sempre molto a farsi vedere anche nelle cose più brutte. La uso, la sfrutto perché mi permette di raccontare i drammi umani, cerco si servirmi della sua capacità di rappresentare.
Immagino che fare un film con la Camorra sia più difficile che farne uno sulla Camorra, oggi, con Gomorra, l’argomento va per la maggiore…
Ho sempre pensato che per capire certi fenomeni sia meglio star loro di fianco, è l’approccio che ho sempre avuto anche come documentarista. Cerco sempre di guardare Napoli così, come un luogo umano dove accadono drammi umani. Cerco una modernità che metto al servizio del mio racconto.
I suoi personaggio vivono in condizioni difficili e lei li mette di fronte a una scelta etica drastica. Potrebbe quasi essere accusato di sadismo…
Per forza dovevo lavorare sui limiti. Fino a che punto possiamo accogliere? Chi possiamo accogliere? Secondo le persone che operano in quel campo, e che conosco bene, scelte di questo genere appartengono alla realtà di tutti i giorni. Sono in contatto continuo con il mondo dei ‘cattivi’ che devono cercare di recuperare o integrare. Non possono avere dei punti di vista rigidi, non sono la polizia, la magistratura o le istituzioni. Sorge un problema che è tipico della nostra contemporaneità: quello dell’inclusione.
A vederlo sembra un film pessimista. Secondo lei lo è?
Non lo so, sto ancora capendo che film ho fatto. Per me quello che conta è quello che avviene nel percorso, quando qualcuno che percepiamo come pericoloso arriva in un gruppo che sta lì ‘per il bene’. Il personaggio di Giovanna ci illumina, pensa che bisogna andare oltre le apparenze di giudizio, anche se Maria non la prende come reale riferimento. Non chiede aiuto, pretende. Quello è il suo linguaggio e di Giovanna non sa niente. Giovanna sospende il giudizio, come capita di fare a questi ‘eroi moderni’ che dove non arrivano le politiche sociali pubbliche, le istituzioni, scelgono di dedicarsi alle fasce deboli, marginalizzate della società. La loro è una sperimentazione continua di convivenza, da quelle parti come in tanti altri luoghi di frontiera culturale oltre che geografica, i limiti si spostano continuamente.
Comunque, i bambini costruiscono un uomo meccanico. Uno con la ‘capa dritta’. Per costruire uno che ha la testa sulle spalle ci vuole sempre qualche sacrificio.
Quanto c’è di fiction e quanto di documentario nel film?
La Masseria non esiste, è un luogo ricostruito e scenografato. Le persone con cui ho lavorato non sono attori professionisti, ma conoscono bene quel tipo di esperienza, anche i personaggi, però non recitano loro stessi. In quel caso dovrei essere io a chieder loro di raccontarsi, e non ne ho l’adeguatezza morale. Recitano dei personaggi molto vicini a loro. Tutto però è scritto, anche le battute dei bambini. Qui e lì hanno portato qualcosa, ma improvvisavano sempre entro un certo percorso che avevamo delineato molto chiaramente nelle fasi di preparazione. Vengo dalla vecchia scuola per cui il punto di vista etico è quello della macchina da presa, ho cercato di darne uno univoco. Molto doveva essere affidato al corpo e all’espressività degli attori.
Sembra che sia interessato al mondo dei bambini… tornerà sul tema?
Ne L’intervallo erano più centrali, qui di contorno. Ma come le dicevo, non so ancora che film ho fatto e non so ancora, in questo momento, cosa farò un futuro.
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