L’attore, che abbiamo appena visto in L’ora legale, si racconta, sin dall’infanzia semplice nella sua Catania, ripercorrendo la versatile carriera, anche di doppiatore, fino al recente spettacolo, Spirito allegro, a teatro fino al 19 marzo.
Gullotta, quando ha incontrato il cinema e il teatro?
Ero ragazzino in un quartiere popolare – parliamo degli anni ’50, oggi ho 71 anni – e c’era il cinemino estivo, di quartiere, anche molto romantico, così da piccolino ci andavo. Ho visto l’arrivo del technicolor, ho avuto le mie prima pulsioni sessuali scoprendo sullo schermo Ava Gardner. Laddove c’era qualche soldino in più, il cinema era un passatempo: non c’erano i pop corn, ma c’erano le semenzine, la gassosa. Mamma preparava la frittatella in mezzo al pane e si andava al cinema, intorno c’era un odore meraviglioso di gelsomini. L’immagine, lo schermo, era come una coperta che ti mettevi addosso. Del teatro non sapevo assolutamente nulla: sono stato un bambino curioso, continuo ad essere un uomo curioso, e non essendoci nulla andavo di qua e di là, fino a quando a Catania, la mia città di nascita, è arrivato il teatro di prosa con una messa in scena dell’Adelchi di Manzoni, del Teatro Tenda di Vittorio Gassman. Non sapevo cosa fosse ma probabilmente il fatto di vedere, non con la ‘quarta parete’ come accade in teatro, ma con un circo dove tutto arrivava addosso, con attori che poi ho scoperto tutti meravigliosi, mi ha affascinato, mi è rimasto dentro.
Si può dire che siano due i registi cinematografici con cui ha più condiviso il mestiere: Nanni Loy (Café Express, Testa o croce, Mi manda Picone) e Giuseppe Tornatore (Il camorrista, Nuovo cinema paradiso, L’uomo delle stelle, Baarìa).
Sono stati anche altri, naturalmente: Tognazzi, Negrin, Bevilacqua… Certamente con alcuni di loro ho avuto un contatto più esteso umanamente, ma questo mi è inevitabile. Certo, con Nanni Loy ho condiviso tantissime cose: era un regista pieno d’ironia, ma anche pieno di stimoli. Si lavorava in maniera molto aperta, non era sordo alle osservazioni, anzi le andava a cercare. Tornatore ha un suo modello, guarda e costruisce sempre storie che hanno un’apertura civile. Gli stimoli sono simili, per molti versi: abbiamo parlato, discusso, mangiato, sorriso, lo scontro no, non è una mia nota, semmai, se non conosco una cosa, me la faccio spiegare.
Il cinema, per lei, significa anche doppiaggio. Due nomi per tutti: è sua la voce di Joe Pesci in C’era una volta in America e altri film, ed è diventato doppiatore ufficiale, dal 2012, di Woody Allen – su Sky anche una nuova serie, Crisis in Six Scenes, con lui protagonista e regista – subentrando al suo grande compagno d’arte e amico, Oreste Lionello. Come giudica questa forma d’arte?
Sono stati gli americani a scegliermi dopo Oreste, che tengo nel cuore come artista autentico. Quando se n’è andato e gli americani hanno scelto la mia voce è stato come stare in sua compagnia, era sempre accanto a me durante quella lavorazione. Il doppiatore non è altro che un traduttore simultaneo, perché è importante ciò che fa l’interprete sullo schermo: bisogna seguire tutto della colonna originale, cercando di non andare oltre ma di capire qual è stata l’intenzione dell’attore. La mia domanda è: voi conoscete medici che operano soltanto appendiciti? Il medico deve conoscere il corpo umano, così l’attore deve conoscere i linguaggi dello spettacolo: del palcoscenico, davanti ad una macchina da presa, in uno studio televisivo, davanti a un microfono; il linguaggio della commedia, il verso, l’uso del dramma.
Sempre nel doppiaggio, è sua la voce del mammuth Manny de L’era glaciale, ma anche del toporagno Mr. Big, del film premio Oscar Zootropolis: non sono pochi i titoli d’animazione che ha doppiato in tutta la sua carriera. Crede ci sia un motivo per cui la sua voce è stata considerata spesso adatta, oppure pensa ci sia una sorta di prossimità tra lei e questo tipo di personaggi fantastici?
Forse. La voce del doppiatore deve unirsi con il viso, la fisicità, di chi sta sullo schermo, quindi voce e volto devono sposarsi bene. Sono una persona che mette davanti sempre la fantasia. Non sono soltanto ‘un impiegato della voce’.
Ne L’ora legale, diretto da Ficarra e Picone, che sono suoi conterranei, lei è Padre Raffaele.
L’essere conterranei conta come piacevolezza, come con Tornatore, anche se sono storie completamente differenti. In comune però hanno la nota sociale. Ficarra e Picone non si sono mai affidati alle battute, alle barzellette: il loro lavoro si è sempre basato sull’osservazione civile. La satira deve mettere il re a nudo e loro l’hanno sempre fatto. Questo film è un punto alto della loro carriera perché, non solo hanno scritto benissimo, ma hanno raccontato, prendendo un paesino della Sicilia ad emblema della società italiana, come noi, popolo italiano, meraviglioso e straordinario, siamo però un po’ vigliacchi, lontani dall’accettare le regole. A mio parere hanno raccontato magnificamente: non è un caso che la platea si sia riversata nei cinema, facendolo diventare un film d’incasso.
Di tutt’altro taglio Lettera a mia figlia di Giuseppe Alessio Nuzzo, sul tema dell’Alzheimer, per cui ci sarà anche una proiezione gratuita il 2 marzo al cinema Posillipo di Napoli e una proiezione in prima visione tv su Studio Universal, il prossimo 27 marzo. Come si è relazionato a questa tematica?
Intanto, sono sempre pronto per i giovani e Nuzzo lo è e con talento. Facendomi leggere il progetto ha trovato subito la mia adesione, perché, se tu hai avuto dalla vita, dare una mano credo sia un dovere. Il progetto era alto e nell’accettarlo era inclusa anche la solidarietà: Lettera a mia figlia vuole far conoscere il problema di chi, durante questa malattia, ‘sta accanto’. Lentamente si perde la memoria e, a poco a poco diventi un sacchetto vuoto, però chi ti sta vicino soffre con disperazione, perché vede la persona sfuggirgli, allontanarsi. Il film aiuta chi non è vicino alla malattia a capire.
Dal cinema al teatro. È in scena – le prossime date: 28/2-2/3 Udine; 7/3-9/3 Thiene; 14/3 Sondrio; 17/3-19/3 Pavia – con Spirito allegro, in cui per raccontare il soprannaturale si usano ‘giochi’ quasi cinematografici: espedienti scenici particolari e video mapping, per la prima volta in uno spettacolo di prosa.
Spirito allegro è una commedia britannica con la “C” maiuscola, scritta da un grande autore, Noël Coward. È una commedia di situazioni, con equivoci, molto, molto elegante, ambientata negli anni ’40: il regista, Fabio Grossi, nel gioco del soprannaturale, che un po’ in giro si prende, ha trovato giusto l’innesco della tecnologia. Il video mapping significa che si vedono, sulla testa degli attori, camminare spiritelli, piatti che volano, finestre che si chiudono improvvisamente, tavolini che camminano. Questo fa parte del gioco perché, nel frattempo, il pubblico è stato abituato alle meraviglie degli effetti speciali del cinema, quindi questo non era un escamotage ma, semmai, un gioco nel gioco, che prima non era stato mai fatto. Il pubblico non solo gradisce ma si diverte tantissimo. È una commedia per riprendersi la leggerezza, in questo pensiero sposo appieno quello dello stesso Coward: in questo momento il Paese, l’Europa, il mondo, ha bisogno… di leggerezza, eleganza.
Non è la prima volta che lavora con Fabio Grossi, sia a teatro sia nei due film In arte Lilia Silvi e Un sogno in Sicilia. Come procede la vostra proficua collaborazione?
Procede bene, ma, in questo momento, e non solo nello spettacolo, è vita difficile, molto difficile. Negli ultimi trent’anni le cose sono cambiate pesantemente, specie dal punto di vista politico: mancano le leggi, verso i giovani c’è una finta apertura ma non c’è un aiuto autentico, e parlo di scuole. Perché le materie teatrali, in questo Paese, non sono materia di studio? Il teatro aiuta a capire, a crescere, aiuta anche il gusto. C’è molta voglia di teatro ma al teatro, politicamente, hanno tolto molte cose.
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