Sempre più spesso il tema della violenza di genere è al centro del dibattito mediatico nel nostro paese. Basti pensare al tragico femminicidio di Giulia Cecchettin. Proprio in queste ore Alessandro Garilli ha presentato il suo nuovo documentario che raccolta lo stesso tema da una prospettiva completamente ribaltata, permettendoci di empatizzare con i colpevoli, e provando a trovare una strada per la crescita della nostra società.
Lee and Me, in uscita il 25 novembre su Prime Video, si divide in tre parti: nella prima sei sex offender (persone che hanno compiuto reati di stampo sessuale) raccontano con la loro viva voce la vita di Lee Miller, iconica modella, fotografa e fotoreporter del Novecento capace di passare da oggetto a soggetto mediatico, nonostante una vita difficile caratterizzata da un abuso in tenera età. Nella seconda parte, è la stessa Lee Miller, interpretata da Alice La Manna, a raccontare la storia di Sami, un uomo kosovaro che da giovane si è macchiato di un grave reato di violenza sessuale contro una bambina, e che ora sta scontando la pena nella casa circondariale di Velletri. Nella terza, esperti di vario tipo, tra cui la psicologa Maria Rita Parsi tracciano delle linee guida da seguire per cambiare le fondamenta della nostra società.
Alessandro Garilli, il suo documentario incrocia due storie, quelle di Lee Miller e quella di Sami. Quale delle due ha incontrato per prima?
Inizialmente ho scritto la prima parte del documentario, quella su Lee Miller, perché era la storia che conoscevo. D’altro canto, è tutto partito dal fatto che volevo trovare un uomo che fosse realmente pentito della violenza che aveva commesso, che fosse desideroso di chiedere scusa e che anelasse a un perdono. Questa era la conditio sine qua non per affrontare il lavoro. Però non sapevo se e chi avrei trovato. È stato molto forte e anche un po’ shoccante quando Sami mi ha raccontato la sua storia perché ho capito che c’era un punto di contatto molto doloroso tra le due storie, che era quello delle due bambine che avevano subito questa violenza. Da una parte Lee Miller, 7 anni, dall’altra parte Nola, sempre 7 anni. È stato sconvolgente perché non potevo immaginarmelo. È come se la forza e la volontà di quest’uomo di interiorizzare davvero l’errore commesso ci avesse in un certo senso chiamato a lui. Quello che mi interessava molto tra le due linee narrative è che si creasse un dialogo. Racconto due storie distanti quasi 100 anni, entro dentro la vita di una persona che ha subito una violenza e poi racconto la vicenda di un uomo che ha commesso una violenza. Il loro non è più il dialogo tra carnefice e vittime, ma tra uomo e donna: chiaramente avendo fatto raccontare a una donna la vita di un uomo e a degli uomini la vita di una donna, succede che per raccontare la vita di un’altra persona noi dobbiamo sempre aprirci all’ascolto ed entrare nelle pieghe di questa vita. Per me era molto importante che ci fosse questa valenza di dialogo per andare nel solco di quella che è la giustizia riparativa che non vede il reato solo come il superamento di una norma, ma come il superamento di relazione tra due esseri umani.
Perché la violenza sessuale, soprattutto quella su minori, è il reato che genera più repulsione, tanto da farci spesso pensare che non possa – o addirittura non debba – esserci un percorso riabilitativo dei colpevoli? Pensiamo, ad esempio, a quanto accaduto a Palermo questa estate.
Come essere umano, non posso dire che non capisco la gravità di questo reato. La capisco e ne rimango inorridito. Però penso che il mostro non esiste, esiste un errore mostruoso. Tutti noi esseri umani dobbiamo attraversare due passaggi fondamentali: il saper chiedere scusa e il perdonare. Il primo è molto complesso, perché per chiedere scusa devi prima prendere coscienza di quello che hai fatto. E più l’errore è grande più la presa di coscienza fa male, però come è molto difficile questo, anche il perdonare è altrettanto più difficile. Però se una persona che ha subito un torto non riesce a perdonare, resterà sempre schiava di quel torto. Questi due passaggi ci aiutano a crescere come esseri umani e ci liberano. Il chiedere scusa fa sì che l’altra persona non si senta più il mero oggetto di un abuso avvenuto, ma gli dà la qualifica di essere umano. La giustizia riparativa è una frontiera estremamente importante, perché non si parla più solo della norma, ma si va verso la direzione della guarigione vera di due persone. Mi auguro con tutto il cuore che Lee and Me, come documentario, abbia in sé una valenza curativa.
In questi giorni, il tema della violenza di genere è sulla bocca di tutti per via del femminicidio di Giulia Ceccherin. Lee and Me, nella sua parte finale è molto propositivo nel cercare buone pratiche per ridurre la violenza di genere nel nostro paese. Perché concentrarsi sui carnefici sarebbe una buona idea?
Oggi si sente dire ‘siamo tutti Giulia’, ma oggi dovremmo sentirci tutti un po’ Filippo, soprattutto noi uomini. Dobbiamo innanzitutto arrivare a una presa di coscienza per attraversare questa landa senza confini che è la violenza sessuale fatta sulle donne. Bisogna partire dalle due agenzie affettive principali: la famiglia e la scuola. E, perché no, estenderci anche al carcere. Questo lavoro che abbiamo fatto potrebbe diventare uno strumento per tutti quegli psicologi che lavorano con i sex offenders nelle carceri di tutto il mondo. E tutto questo mi rende molto felice: utilizzare gli strumenti dell’arte e del linguaggio per crescere come uomini. La Repubblica dell’Antica Roma è nata su uno stupro: Lucrezia che viene stuprata dal figlio di Tarquinio il Superbo nel 509 Avanti Cristo. Se faccio un salto di 2mila e 400 anni e approdo nell’Inghilterra vittoriana di fine ‘800 trovo un personaggio come William Thomas Stead che scopre che nei quartieri poveri di Londra le ragazzine venivano vendute nei bordelli per soddisfare il piacere di attempati uomini d’affari londinesi. Affiancando questi due esempi così lontani nel tempo e nello spazio emerge subito che la violenza sessuale non ha limiti temporali, geografici, di età, di classe, relazionali, culturali. Sembra quasi un virus che va dappertutto. Come mai non ci sono questi limiti? Perché secondo me manca una presa di coscienza maschile importante su questo argomento. Per questo era importante trovare una persona che fosse realmente pentita e raccontarla. Mi sembrava di mettere il primo paletto in questa landa desolata.
Perché la scelta di raccontare la vita di Lee Miller con lo stile della graphic novel?
Lee and Me affronta vari tabù. La strada della graphic novel mi ha permesso di affrontare questi argomenti crudi e duri, spero, in maniera delicata e profonda. Questo tipo di comunicazione, nella mia testa, mi faceva avvicinare al mondo dei più giovani. Ringrazio per questo i due fumettisti Federico e Michele Penco che hanno realizzato delle bellissime tavole. Dall’altra parte, far raccontare a sei sex offender la storia di Lee Miller è un grande cortocircuito mediatico. Dopo avere realizzato il documentario, i ragazzi hanno compiuto un percorso e mi è stato detto che c’è stata un’evoluzione molto importante per alcuni di loro.
Il suo ultimo film La seconda via, racconta una tragica vicenda storica durante la seconda guerra mondiale. Qual è filo rosso che lega tutti i suoi lavori?
Guardando tutti i miei film, noto una certa attenzione al dolore delle persone. La scrittura de La seconda via mi ha insegnato a comprenderlo. È un processo difficilissimo, spesso impossibile, però tentare di farlo ti aiuta a crescere tanto. È stato un regalo perché è come se mi avesse aperto gli occhi. Cercando di trovare un filo, posso dire che ho sempre cercato di portare un certo tipo di cura. Non mi interessa solo parlare dell’evento drammatico, ma mi sta sempre molto a cuore il fatto di trasfigurare il dolore, dando origine a qualcosa che lo supera e che ci fa migliore come persone e come società.
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