CANNES – Il #MeToo la fa decisamente da padrone nelle prime giornate del festival, che sembra voler recuperare rispetto alla caduta di stile dello scorso anno, quando Jeanne du Barry di Maïwenn fece discutere e infastidì per le dichiarazioni quanto meno ambigue della regista. Quest’anno è stato Le deuxième acte di Quentin Dupieux ad aprire le danze, una farsa che tocca temi di attualità tra cui la cancel culture e le molestie anche sul set. In conferenza stampa è toccato all’unica presenza femminile del film, Léa Seydoux, affrontare l’argomento con una certa forza. “Sono stata molto fortunata come attrice – ha detto la 39enne star francese – all’inizio della mia carriera, quando sei necessariamente più fragile e vulnerabile, ho lavorato con persone che mi hanno più o meno rispettata. Ci sono donne che sono vittime di cose gravi, gravissime, io non posso lamentarmi a paragone con loro”.
Seydoux aveva rilasciato a suo tempo dichiarazioni su quanto era accaduto durante la lavorazione di La vie d’Adèle (2013) del controverso autore francese Abdellatif Kechiche, un film che ottenne la Palma d’Oro e il premio per l’interpretazione alle due attrici, ma che divenne famoso anche per la lunga scena di sesso tra due donne e per le accuse di molestie mosse sia da Léa che dalla coprotagonista Adèle Exarchopoulos. Per il regista di origini tunisine, in seguito colpito da nuove accuse, fu l’inizio della fine nonostante il grande talento.
“Quando sei un’attrice, è più difficile. Oggi c’è molto rispetto sul set, le persone tendono a prendersi meno confidenza. Si sente il cambiamento, anche nelle scene intime, ripeto c’è maggiore rispetto”, ha detto ora davanti alla platea mediatica del 77° Festival di Cannes. E ha aggiunto: “È bene che le donne possano parlare liberamente affinché le cose cambino. Le deuxième acte gioca su questi temi e parla di attualità con ironia e di questo movimento di liberazione che è stato ed è fondamentale. Sono testimone di questo cambiamento perché l’ho vissuto e saluto positivamente il movimento che lo ha innescato”.
A proposito della parodia del mestiere dell’attore, al centro del film di Dupieux, Seydoux ha detto: “Stamattina mi sono svegliata chiedendomi cosa ci faccio qui. E mi sono detta che sono un’attrice. Che strano mestiere recitare! Sembra totalmente astratto, immateriale. Che vuol dire recitare? Che vuol dire recitare bene o male? Per me poi è ancor più paradossale perché di natura sono molto timida e quello che faccio è un paradosso. Come dice la figlia del mio personaggio nel film, non so se recitare sia un vero lavoro, forse non lo è”.
Mentre il regista ha ribadito che “non c’è nessun messaggio nel suo film” e “meno parlo, meglio è”, spiegando che si prende gioco di tutti, compreso se stesso. “E’ come un bagno rilassante con dentro una punta di acido, serve per divertirsi in questo mondo inquietante in cui viviamo circondati da cose preoccupanti”.
“I miei film – ha aggiunto Quentin Dupieux – anche se sono molto corti danno l’impressione di essere molto lunghi. A parte gli scherzi, perché sono sempre così brevi? Perché quando monto, sono impietoso con le mie immagini e con me stesso. Quando mi accorgo che una scena è lì solo per me, la taglio. C’è un ritmo che va rispettato”. E a proposito del titolo del film: “Le sceneggiature costruite a tavolino e secondo le regole delle scuole di cinema, hanno tre atti. Ma quando arriva il terzo atto il cinema diventa una formula e per me totalmente noioso. Se un cineasta è geniale, può anche andare, ma se non lo è tutto diventa noioso e pretenzioso. Così il terzo atto lo taglio per evitare di scocciare le persone”. E ancora, sull’umorismo. “L’umorismo è un tentativo di fare respirare la gente in un periodo difficile come quello che viviamo. Ho dei fedelissimi, ma l’industria nel suo complesso non mi apprezza e la mia capacità di lavorare tanto, anche due film all’anno, è il risultato di una forzatura”. Infine sull’improvvisazione. “Non ce n’è molta. È chiaro che quando fai un piano sequenza di dieci minuti gli attori avranno qualche esitazione, ci sarà qualche incertezza e ripetizione e qualcosa di improvvisato. Anche perché così hai l’impressione di assistere a una scena che si svolge veramente in quel momento”. Ultima parola a Vincent Lindon che esalta il cambiamento: “Per esempio io non capisco i tatuaggi perché non capisco come si fa a incidere in modo definitivo un pensiero che è solo e sempre passeggero”.
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