“Volevo anticipare il finale del film: finisce con loro due che si sposano!!!”
85 anni e non sentirli. Con lo smalto che può donare solo una grande passione condita da ironia, Pupi Avati cattura la platea fin dalla prima battuta, che fa scoppiare tutti in una sonora risata. Il regista è seduto ai piedi del grande schermo di Santa Croce in Gerusalemme immerso tra gli alberi, in una cornice che sembra dipinta ad hoc per introdurre con la giusta dose di mistero La casa dalle finestre che ridono, il cult horror che il regista bolognese girò nel 1976 tra le valli di Comacchio, nel Delta del Po, aprendo le porte del cinema italiano al cosiddetto ‘gotico padano’.
Dopo il successo registrato dalle serate dedicate a Dario Argento e Mario Bava, quella con Pupi Avati vede ancora un’arena gremita per Effetto Notte, la rassegna cinematografica organizzata da Cinecittà con Direzione Generale Cinema e Audiovisivo in collaborazione con Soprintendenza Speciale di Roma e CSC-Cineteca Nazionale, dedicata al cinema horror, del mistero e del fantastico, condotta dalla giornalista Ilaria Ravarino (leggi qui il nostro articolo con il programma della rassegna ).
Alla destra del regista il fratello Antonio Avati, produttore e co-sceneggiatore del film, che gli fa da spalla in un esilarante siparietto collaudato da sempre, mentre alla sua sinistra, a fare gli onori di casa, c’è la presidente di Cinecittà Chiara Sbarigia.
“L’idea editoriale per questa edizione di Effetto Notte nasce dalla constatazione del successo della retrospettiva dedicata a Dario Argento a New York e dal desiderio di avvicinare sempre più pubblico ai capolavori del cinema italiano”, spiega Sbarigia. “Quando abbiamo avuto la possibilità di tornare a gestire lo spazio di Santa Croce, ho pensato quindi a una rassegna dedicata al cinema di genere italiano. Insieme al CSC abbiamo disegnato un omaggio ai nostri grandi Maestri. E il pubblico ci ha dato ragione: tutte le sere abbiamo sold out, con spettatori felicemente terrorizzati e divertiti. Il film di stasera, La casa dalle finestre che ridono, è un piccolo capolavoro, artistico e produttivo, come dimostra anche la sua longevità”.
L’entusiasmo sul palco contagia la platea, e l’atmosfera, se possibile, si scalda ben oltre i 37 gradi del rovente luglio romano con la parola che torna a Pupi Avati, decisamente in vena di spoiler: “Un episodio biografico nel film c’è, in quanto ha a che fare con una cosa che veniva raccontata a casa nostra” – svela ridacchiando, interrotto in continuazione dal fratello che gli intima ‘non puoi raccontarlo!’… “È il fatto che tra le due guerre venne riesumata la salma di un parroco locale, e… ok, non dico altro!”
“La casa dalle finestre che ridono andò subito abbastanza bene”, prosegue Avati, “ma poi è cresciuto nel tempo e ancora oggi, dopo 47 anni e altri 53 film che ho fatto, è il mio film che viene più citato, e questo ci lusinga molto. E poi è un film di recupero: ovvero viene dopo un nostro film disastroso, un flop totale (…). Ma se cadi da cavallo devi immediatamente risalirci, e allora decidemmo di costituire una società piccolissima, per produrre il film più economico che si potesse produrre in quell’anno: era il 1976 e il costo più basso di un film era 160 milioni di lire. Noi portammo un budget di 150 milioni e facemmo questo film in dodici persone, con una troupe in cui tutti facevano di tutto: mio fratello faceva lo scenografo e dipinse tutte le bocche assieme al truccatore, l’autista faceva il microfonista… solo io facevo il regista e basta. Poi c’era un attore straordinario che ha fatto me stesso in molti miei film, Lino Capolicchio, al quale dedicherei un grande applauso” – dedica immediatamente esaudita dal pubblico. “Mi ha accompagnato nel corso di tante storie che ho raccontato, al punto che mia madre preferiva lui a me, perché era più bello, c’è stata questa identificazione totale. Poi c’era Gianni Cavina, che meriterebbe un secondo applauso – pure incassato prontamente – che a sua volta ha fatto tutti i miei film, dal primo fino a Dante (2022), nel quale recitò nonostante fosse già molto malato”.
Ma oltre ad altri nomi degni di nota, il cast de La casa dalle finestre che ridono, vogliamo ricordarlo, vanta un’altra vera ‘chicca’: accanto alla magistrale interpretazione di Capolicchio (Stefano, il protagonista), in una delle sue prime esperienze sul set, c’è infatti un’appena ventenne Francesca Marciano (Francesca, la sua compagna), di lì a poco e ancora oggi una delle sceneggiatrici di punta del cinema italiano.
“Le bocche che ridono sulle finestre le abbiamo dipinte io e il truccatore, che era anche un bravo pittore”, racconta Antonio Avati. “Abbiamo ridipinto tutta la facciata, che è diventata il simbolo del film in tutto il mondo: ovunque quando si lancia questo film per la distribuzione si vede la casa con quelle bocche che ridono. La casa? L’abbiamo trovata tra le tante abbandonate e diroccate che c’erano al tempo – ahimé ora ce ne sono molte di meno – nella zona del delta del Po, di Comacchio, fra l’acqua dolce e quella salata, tra il Veneto e l’Emilia Romagna, zone che abbiamo usato per altri film dello stesso genere, che pure sono andati abbastanza bene ma non hanno certo avuto lo stesso successo. Perché La casa dalle finestre che ridono ne ha avuto fino a diventare un cult? Per la grande paura che faceva!”, continua il produttore e co-sceneggiatore del film. “Più che altrove, ne fece moltissima per una proposta televisiva abbastanza ‘azzardata’ di tre o quattro anni dopo l’uscita in sala: gli allora funzionari di Rai 1 lo mandarono in onda così, senza nessun tipo di ‘censura’ – uso questa brutta parola – cioè senza alcuna visione preventiva. E per i 14-15-16-17-18enni di allora fu davvero una cosa allucinante. Io ho dei parenti che si ricordano ancora la sera in cui videro il film in tv e ci maledicono tuttora per averlo fatto”. “Io ho rovinato tre dei miei figli” – conferma il regista rincarando la dose, tra le risate generali – allora erano bambini e glielo feci vedere: non si sono più ripresi, hanno 50 anni e sono ancora con un ritardo psicologico”.
“Molti miei colleghi in qualche modo ‘sdegnano’ i film di genere, in quanto sono loro stessi il genere: Moretti fa il genere Moretti, Amelio fa il genere Amelio, Guadagnino fa il genere Guadagnino… eccetera eccetera”, continua Pupi Avati. “Invece fare i film di genere ti costringe a delle regole: se vado a vedere un film gotico, un film horror, devo spaventarmi. Fare un film di genere vuol dire ‘andare in officina’: ogni tot chilometri, tu vai in officina e fai un ‘reset’. Quindi nel fare ancora un film di genere come il prossimo, L’orto americano (scelto come film di chiusura a Venezia 81), sappiamo che se spaventeremo, se inquieteremo, vuol dire che dobbiamo fare ancora questo mestiere”.
Quindi Pupi Avati si rivolge direttamente alla Presidente di Cinecittà, che, dice, è ‘il luogo più bello della storia del cinema al mondo’: “Perché non assumere questo film come modello per i giovani e i registi di oggi, dimostrando loro come col basso costo si possono fare film straordinari? Perché non ritornare al basso costo, alle grandi difficoltà che hanno affrontato i registi del neorealismo, che tutti i giorni dovevano inventarsi qualcosa? Si darebbe così il massimo della libertà espressiva ai tanti giovani di talento, costringendoli a fare il cinema con “l’essenziale”. Vediamo Roma invasa da decine e decine di camion di produzione, ma cosa se ne fanno? Hanno bisogno dell’alto costo per il tax credit? Dobbiamo spiegare ai ragazzi che con i 150 milioni di lire di allora, che oggi sono poca cosa, si poteva fare un film che è sopravvissuto 47 anni”. “È un’ottima idea, se voi ci aiutate ci proviamo”, replica Sbarigia.
Il film comincia, e già dalle sequenze ‘seppiate’ e confuse che accompagnano i titoli di testa, mostra le sue intenzioni più oscure. Scritta a quattro mani da Pupi e Antonio Avati, con Gianni Cavina e Maurizio Costanzo, la sceneggiatura non risparmia i colpi di scena, superandosi decisamente in quello finale, che getta definitivamente lo spettatore in un abisso. L’atmosfera e la ‘chiusura’ senza scampo di una certa ‘provincia’, a qualsiasi latitudine essa si trovi, si dimostra ancora una volta una scelta geniale per il genere di racconto più ‘gotico’ che si voglia rappresentare. In un saliscendi emotivo continuo, un minuto dopo l’altro il regista trasforma in un perfetto teatro dell’horror il tranquillo e ultrapiatto paesaggio delle valli di Comacchio, tra i suoi mille canali e i lunghissimi filari di pioppi, a perdita d’occhio. E quando arrivano i titoli di coda, la domanda è una: come finisce questa storia? Il silenzio è più inquietante della paura. E il brivido resta.
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