TRENTO – Cosa sono le “api” evocate dal titolo del film di Luca Ciriello (già in selezione alle Giornate degli Autori 2020 con Quaranta Cavalli)? Sono gli insetti, o l’autore cerca di fare metafora? Sicuramente sono i piccoli veicoli, le ape-car, che si fanno casa fuori dalla casa per alcuni individui, adolescenti.
In Concorso al Trento Film Festival, Api è una storia di adolescenza, di crescita, di opposti: il piccolo, che è l’uomo e la sua età anagrafica, e il grande, che riflette il futuro e le montagne, quelle valdostane, che abbracciano l’estate di una manciata di ragazzini che passano il tempo ascoltando trap, temendo o sfidando la polizia, mossi dalle prime onde istintive verso l’altro sesso. E la scuola è lì, incombe, come le vette.
Luca, Api è un titolo che di primo acchito evoca i piccoli laboriosi insetti, ma poi si scopre si riferisca alle vetture, eppure i suoi adolescenti sembra abbiano qualcosa in comune con le api in quanto animali sociali: c’è una volontà di gioco di parole e metafora?
È la prima persona che mi fa questa osservazione, e mi fa piacere perché è bello ascoltare visioni nuove sul film, ma non era una volontà, però c’è un piccolo segreto: questo film fa parte di una trilogia e quando ho nominato il primo capitolo Quaranta Cavalli – riferito ai cavalli dei motori dei barchini – mi stuzzicava l’idea di associare la forza dei mezzi di trasporto a quella degli animali. Api, rispetto alle ape-car, era un nome perfetto per la forma e perché un po’ sembra di volare quando sei sopra ma è vero, se ora penso anche all’aspetto del ‘fare gruppo’, perché le api sono animali che collaborano, c’è tutto il significato che mi domanda, sì, ma non c’è stata una volontà, che invece era voler far emergere immediatamente dal titolo qualcosa relativo al mezzo, e collegarsi con quello precedente: la difficoltà sarà adesso trovare il titolo per il terzo capitolo, che si girerà a Napoli, e sarà sui motorini.
Il luogo montano, per come ha scelto di raccontarlo nel film, è dominio, abbraccio, gigante che incombe o vetta da raggiungere?
Quando ho pensato alla trilogia sugli adolescenti avevo in mente il terzo capitolo, Napoli: il primo è nato perché mi dicevano che Chioggia fosse la Napoli del Nord, e presentando Quaranta Cavalli in Valle d’Aosta vidi queste ape-car girare in quel modo, ecco il collegamento. La prima cosa vista ad Aosta sono state le montagne, con la sensazione di esserne circondato: era un mondo di adolescenti che sfrecciano ma, se alzavi gli occhi, avevi montagne altissime a proteggerti. Dovevano esserci le montagne anche per una questione di sonoro: al baccano delle ape-car che sfrecciano si associa il silenzio dell’osservazione delle montagne.
Perché ha scelto di appaiare l’età dell’adolescenza al luogo montano: quali i punti di contatto, quali di contrasto, cosa le permetteva di esaltare l’una dell’altra?
Ci sono punti di contrasto e sono partito da quelli: mi sono domandato e ho domandato a loro da cosa si scappi; cosa si cerchi rispetto ai mondi da cui cerchiamo di evadere. Loro evadono dalle costrizioni, dal mondo della scuola per esempio, vivendo una sorta di rigetto verso le istituzioni, come la polizia da cui scappano nel film, e la montagna è un piccolo rifugio: c’è una sorta di attrazione e repulsione al contempo, probabilmente dettata dalla fase dell’adolescenza, subito dopo la quale ti rendi invece conto delle potenzialità che hai attorno. L’impressione è di aver attraversato un’adolescenza molto viva e determinata.
Infatti, le api-car che lei racconta vogliono essere simbolo di omologazione, di libertà, di proiezione in avanti, quindi di slancio al futuro, o cos’altro?
È un rompere gli schemi: l’ape-car è vista come mezzo agricolo, nell’immaginario collettivo; qui è un andare contro corrente, non essere la massa, con la semplicità e la leggerezza di un quattordicenne. Ho trovato una sorta di periferia dell’Europa, rispetto alla frenesia di una città come Milano, che in una provincia come Aosta, per esempio, si ribalta: il vivere con altri ritmi, che chi abita in montagna sa essere differenti.
Nel film ha inserito musiche dalle sonorità tipiche del Sud, che suonano diffuse, come da un’ape-car in una serata tra amici: non sono sempre brani generazionali per degli adolescenti di oggi. Qual è stata l’intenzione?
La musica è tutta completamente diegetica, si tratta delle musiche che questi adolescenti si portano dietro in quanto quasi tutti figli di famiglie del Sud Italia, cosa che gli fa portare con sé un certo bagaglio culturale, con la mia volontà di raccontare il loro mondo con la loro lingua, infatti a volte parlano in dialetto, così come la musica è quella che loro decidono di far partire: io stesso sono rimasto stupito di ascoltare pezzi di neomelodici napoletani che nemmeno io – da napoletano – conosco, là su un’ape, sulla montagna, ad Aosta. Non volevo fare interventi musicali e ho capito che indirettamente mi hanno fatto mille proposte con gli stereo sempre accesi: la difficoltà del film è stata trovare il silenzio.
Nel suo film, qual è il confine tra documentario, inteso come qualcosa che documenti una realtà, e finzione, cioè messa in scena, e perché ha scelto questo linguaggio un po’ ibrido?
In questa trilogia dell’adolescenza l’approccio è stato quasi completamente osservativo, ho fatto tantissima ricerca, usando tantissimo anche i social, per conoscere gli adolescenti, che però sul campo non ho mai diretto, tanto che non lo chiamo nemmeno ‘set’ perché non voglio dare l’idea di situazioni costruite: poi, certo, c’è stato un lavoro enorme di montaggio, ma quando ero lì con loro ho seguito il flusso degli eventi, con la prontezza di creare per esempio la fotografia migliore nel momento migliore, sempre attento a osservare tutto. Poi, c’è stata anche tanta imprevedibilità, come quando decidono di mangiare la pizza sulle ape-car: io sapevo solo saremmo andati in quel posto e poi è stato bellissimo vederli lì sotto le montagne a mangiare la pizza, infatti l’immagine è diventata poi la locandina del film.
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