Landis: una pernacchia vi seppellirà


“Ma quale genio?!?”, dice di sé stesso il regista John Landis, giunto a Roma per presentare il suo nuovo film Ladri di cadaveri: Burke & Hare, in uscita il 25 febbraio con Archibald in 60 copie, e visto a ottobre al Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione L’Altro Cinema/Extra curata da Mario Sesti. E’ proprio Sesti, coadiuvato dal giornalista Valerio Cappelli, a dare il La all’incontro che si tiene dopo la proiezione del film al cinema Embassy e al quale, oltre alla stampa, sono presenti gli studenti del liceo Tasso e del DAMS di Roma.

 

“Io geni non ne conosco – continua con umiltà l’incontenibile regista, dotato di un’inarrestabile parlantina stimolata dalle domande congiunte di studenti e giornalisti – è tutta una questione di tempo che passa. Ora che ho sessant’anni, ho guadagnato prestigio. John Huston diceva: ‘i registi, le puttane e i palazzi diventano rispettabili col passare del tempo’. Quanto è vero! Gli stessi miei film che quando sono usciti erano considerati una merda ora sono dei classici. E sono gli stessi fottutissimi film! L’unico modo in cui si può giudicare se un film è buono o no è vedere se resiste alla prova del tempo: pensate a Casablanca, Psycho!, 2001 – Odissea nello spazio o 8 1/2. Sono ancora meravigliosi, mentre magari film girati negli stessi anni, visti oggi, non risultano più questo granché. La verità è che, quando giri, lo fai per gente che ti da dei soldi non perché siano mecenati degli artisti, ma perché si aspettano che tu gli faccia fare altri soldi. A pensarci troppo, c’è il rischio di diventare schizofrenici: per chi giro? Per il pubblico? Per la critica?”

Certo Landis, a dispetto della sua umiltà, di pagine importanti nella storia del cinema ne ha scritte parecchie: Una poltrona per due, Animal House, Un lupo mannaro americano a Londra, The Blues Brothers – e ci limitiamo a citare i più famosi – hanno spaziato tra i generi rivoluzionando ogni volta l’approccio narrativo di ciascuno dei filoni esplorati, senza mai dimenticare l’ronia e il valore catartico di una sana risata, magari alternata a qualche brivido di paura o di tensione. Poi, nel corso degli anni ’90, la sua stella ha cominciato ad oscurarsi, collezionando una serie di insuccessi di pubblico e di critica che lo hanno gradualmente allontanato dai riflettori.

 

Magari, tra 40 anni, tanto per citare il maestro, la gente non ricorderà Ladri di cadaveri come un classico imprescindibile. Ma, è innegabile, il film, intriso di humour macabro e di ricchi siparietti comici confezionati dai protagonisti Simon Pegg e Andy Serkis – Il Gollum de Il Signore degli Anelli, finalmente in un ruolo di spicco e senza trucco digitale di sorta – è davvero divertente, certamente un passo avanti nella ultimamente traballante carriera del prolifico regista statunitense.

E si basa su una storia vera, “eccetto le parti che non lo sono”, come recita lo scherzoso cartello che apre la pellicola: due cialtroni irlandesi che cercano di sbarcare il lunario nella Edimburgo del 19esimo secolo, si rendono conto per caso che un bel cadavere fresco può fruttare una bella somma, se rivenduto alle università che cercano disperatamente corpi per i loro esperimenti di dissezione. L’intraprendente Hare (Serkis) si rende subito conto di essere incappato in una succosa fonte di profitti, mentre Burke (Pegg), meno convinto già da principio, cambia totalmente idea quando perde la testa per Ginny (Isla Fisher), una graziosa filodrammatica che cerca finanziamenti per mettere in scena il ‘Macbeth’ di Shakespeare.

Lo hanno prodotto gli Ealing Studios: “E’ una storia tipicamente ‘Ealing’ – dice Landis – Loro sono famosi per cose come La signora omicidi e Sangue blu, storie piene di assassini, ammazzamenti e chi più ne ha più ne metta. Ma per me Ladri di cadaveri non è un horror. Anche se un paio di inquadrature ricordano i classici di paura della Hammer. E’ una commedia, ‘british’ nel soggetto, ma dove in realtà ci sono solo due inglesi. I protagonisti sono irlandesi e tutti gli altri parlano scozzese. Ovviamente, voi non avete potuto distinguere tutti questi accenti. Ma la commedia non ha nazionalità. La commedia è commedia. Una volta, mentre ero proprio qui in Italia a presentare Oscar: un fidanzato per due figlie, con Sylvester Stallone e Ornella Muti, un giornalista ha cominciato a inveirmi contro perché sosteneva che per colpa delle commedie americane il pubblico avesse perso interesse nel cinema italiano. Per fortuna quello era l’anno de Il Mostro di Benigni, così ho potuto usare l’esempio di quel successo straordinario per metterlo al suo posto. Comunque, in Burke & Hare ci avrei messo volentieri Totò. Purtroppo è morto”.

Punto di forza del film è un look piuttosto ‘classico’, con un’illuminazione curata e uno scarsissimo uso di diavolerie ed effetti digitali: “La fotografia è di John Matheson – racconta ancora il regista – che ha lavorato tantissimo con Ridley Scott. L’effetto “pittore fiammingo” è dovuto al fatto che abbiamo usato soprattutto il lume di candela, con una nuova pellicola sperimentale. Io stesso mi chiedevo se alla fine sarebbe venuto fuori qualcosa. Quello che ho imparato – scherza poi – è che quando giri con tutte quelle dannate candele finisci ricoperto di cera. Veramente uno spettacolo ‘horror’! Per quanto riguarda l’effettistica – continua – io credo che la tecnologia non abbia cambiato granché il linguaggio cinematografico. Il cinema è un’arte relativamente giovane, ha solo 100 anni. Se guardiamo una foto di produzione da un set del 1909 e una da un set del 2011, vediamo le stesse cose: macchina da presa, cast e crew. Certo, poi ci sono gli strumenti: il suono, il colore, oggi la CGI. Che a me non piace granché, la gente si stufa in fretta. E poi non costa poco come immaginate: basta guardare i titoli di coda di Spider-Man o Iron Man per rendersi conto di quanto pesi la “manovalanza” addetta agli effetti computerizzati. Certo, se fatta bene, fa la sua figura: per esempio in Jurassic Park, la svolta non era tanto l’animazione dei dinosauri, ma il ‘compositing’ che li faceva davvero sembrare ‘dentro’ il film e non ‘sopra’, come accadeva in pellicole precedenti, come King Kong o Gli Argonauti. Personalmente, ho accettato di usare la CGI in Burke & Hare solo in una scena in cui rotola un barile. Mi stavo impiccando tra fili e rotaie e mi hanno proposto di semplificare le cose. Ci hanno fatto un test gratis. Ho dovuto ammettere che funzionava alla grande”.

Infine, qualcuno gli chiede se, da maestro della commedia qual è, gli italiani lo fanno ridere. Il riferimento è all’attualità: “Sono americano, non italiano, quindi non chiedetemi di parlare del bunga bunga, non mi sentirei a mio agio. Comunque – ammette – a me Berlusconi fa molto ridere. Ogni paese ha i suoi buffoni: io ho avuto per otto anni George W.Bush! Per me comunque sarebbe un ottimo soggetto per un film. Mi fa pensare a Herst, il magnate dei media su cui Orson Welles ha modellato Quarto Potere. Anche lui controllava la stampa. Ma chi lo promuoverebbe, chi lo finanzierebbe? Forse potrebbe realizzarlo uno degli autori di commedie italiane che in questo periodo, se non sbaglio, stanno avendo tanto successo – commenta dimostrandosi preparato sul nostro cinema e, al contempo, pieno di candida ingenuità – Ad esempio, se Gheddafi sapesse che lo considero un pupazzo cretino, questo lo ferirebbe, perché è tutta gente che vorrebbe incutere timore. I politici odiano chi li ridicolizza, trasformandoli in pupazzi, come hanno fatto i fratelli Marx o come faceva Chaplin con Hitler. Il Fuhrer stesso disse dell’attore: ‘Lo voglio morto’. Lui rispose con una bella pernacchia”.

autore
23 Febbraio 2011

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