La vita e le battaglie di Nan Goldin nel ritratto di Laura Poitras

Si intitola All the Beauty and the Bloodshed il nuovo film della regista premio Oscar. Unico documentario in Concorso a Venezia, racconta il passato e il presente della popolare fotografa impegnata ne


VENEZIA – “Grazie alla Mostra di Venezia per avere invitato qui il mio film in Concorso e avere riconosciuto così che il documentario è cinema”. Inizia con queste parole la conferenza di presentazione di All the Beauty and the Bloodshed, il nuovo film di Laura Poitras, regista vincitrice di un Oscar al Miglior documentario per Citizenfour. Non accade frequentemente, infatti, che un documentario acceda a un Concorso così prestigioso, in quanto si preferisce piuttosto relegare queste opere alle sezioni parallele. Ma in questo caso la scelta sembra quanto mai giustificata.

Esattamente come i suoi lavori più famosi, anche questo nuovo film della regista statunitense ruota attorno a un personaggio dalla forte personalità, capace di smuovere importanti temi politici. Si tratta di Nan Goldin, la popolare fotografa e regista che negli ultimi anni si è fatta promotrice di una campagna di attivismo contro la famiglia Sackler, proprietaria della multimilionaria compagnia farmaceutica Purdue. Infatti, seppure questa azienda fosse colpevole di avere prodotto volontariamente un’epidemia di dipendenza da oppioidi, causando centinaia di migliaia di morti per overdose in tutti gli USA, il nome della famiglia campeggiava all’interno dei più importanti musei e università del mondo, grazie ai loro generosi finanziamenti privati. È in questi edifici che Goldin e la sua associazione PAIN è entrata in azione con i suoi interventi dimostrativi, che sono il fulcro narrativo del documentario.“Da regista che si occupa di politica – spiega la regista – rispetto molto quello che ha fatto Nan sfruttando la sua influenza per portare a galla questa problematica e mettendo a rischio la sua posizione”.

All the Beauty and the Bloodshed, però, non è solo il resoconto di questo storico esempio di attivismo. Ma è l’occasione per ripercorrere la vita di un’artista straordinaria che con le sue fotografie e i suoi film, a partire dal capolavoro The Ballad of Sexual Dependency, è diventata un punto di riferimento per la comunità gay e per tutte le minoranze del paese. In particolare, cruciale è stata la mostra del 1989 in cui per la prima volta ha messo in mostra il dolore delle vittime di AIDS. Malati condannati a morte senza che gli fosse garantita la legittima assistenza sanitaria. “Sapevamo che non fosse un film biografico, è un ritratto di sicuro ma volevamo che fossero rivelate le forze storiche con questa convergenza tra l’AIDS e gli oppioidi”: spiega Poitras.

Tutta la mia arte parla dello stigma – racconta Nan Goldin – le scelte sessuali, il consenso sessuale, la crisi dell’AIDS e poi l’uso di sostanze. È importante dare visibilità a queste cose mantenendo la riservatezza delle persone. Ho sempre rappresentato quello che mi accadeva, come quando sono stata picchiata. Ci sono 10 milioni di persone malate di AIDS nel mondo ancora ora: lo stigma ha ucciso la mia comunità e non voglio che un’altra comunità muoia. Noi abbiamo colpito una famiglia di miliardari, in un sistema in cui godono di una legge diversa dalla nostra, ma siamo riusciti ad abbatterne una, almeno una”.

Il passaggio tra il racconto biografico, scandito dalla voce di Nan e da video e foto di repertorio, e le riprese degli ultimi anni rendono il ritmo del film incalzante e piacevolissimo, grazie anche alla personalità straripante e all’autoironia della protagonista, che con enorme sensibilità racconta la sua vita piena di avventure e dolori. Colpisce soprattutto vedere la sua timidezza giovanile vinta dal linguaggio universale della fotografia, che le dà una voce e la libera, in particolare dal punto di vista sessuale. Un excursus di volti, storie e ricordi ricco di emozioni e nostalgia che fa efficacemente da contraltare all’epica battaglia contro il mostro apparentemente invincibile rappresentato dalla famiglia Sackler. “La vita di Nan richiedeva un film epico per quello che ha fatto e per i rischi che ha corso. – conclude la regista – Il film doveva essere quasi un’opera musicale, e quindi ringrazio i compositori del Soundwalk Collective, per averla realizzata”.

Insomma, l’unico documentario in Concorso a Venezia 79 non sta lì a fare numero, ma è un’opera stratificata e complessa che ci porta nell’intimità di un personaggio memorabile, d’ora in poi non solo per il mondo dell’arte e dell’attivismo, ma anche del cinema.

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03 Settembre 2022

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