L’Olocausto, il ritorno alle origini dell’apolide Polanski, la potenza di fuoco dell’industria francese magari con la tempesta di Canal Plus sullo sfondo… La Palma d’oro a The Pianist – certamente il film più atteso di questa 55/a edizione del Festival di Cannes – significa tutto questo. Ed altro ancora: è una Palma europea, anzi francese. Come ha dimostrato l’accorto Roman invitando sul palco a condividere il massimo onore i due produttori Alain Sarde e Robert Benmussa e citando Pierre Lescure nei ringraziamenti. Ma è anche una Palma a un cinema che sa sfidare Hollywood, per stile e struttura del racconto. E che sconfina verso l’Europa che sarà, l’Est delle “centinaia di comparse polacche e la loro pazienza infinita che ha reso possibile questo film”.
Accolto dai dissensi dei giornalisti, ma applaudito in Salle Lumière, Polanski ha concluso una serata che si era aperta con le dichiarazioni rassicuranti del presidente della giuria David Lynch: “è stato un privilegio lavorare insieme con i miei colleghi, abbiamo condiviso tutti i premi e avremmo voluto averne di più”. Magari per segnalare un film importante, ma in parte incompreso, come L’ora di religione. O Spider di Cronenberg.
In realtà il verdetto di Cannes 2002 rispecchia la selezione Frémaux-Jacob al 90% e dà ragione a un cinema all’europea ben al di là della Palma a Polanski. Anche in direzioni meno scontate: è condiviso da tutti il premio a L’uomo senza passato di Kaurismaki (laconico al punto da ringraziare “se stesso e poi la giuria” in meno di trenta secondi): un Grand Prix raddoppiato, a sorpresa, dal premio a Kati Outinen, malinconica biondina che i fans di Aki conoscono fin dai tempi della Fiammiferaia.
Kati parla finlandese e nessuno capisce: è la gag della serata. Aveva iniziato Michael Moore, Premio del 55° Anniversario per l’apprezzatissimo Bowling for Columbine, documentario venduto in quasi tutto il mondo. Moore viene dal Michigan ma si si ostinava a parlare un francese residuato dagli anni del liceo e ormai sconnesso: con grande imbarazzo di Sharon Stone. Elia Suleiman, maestro dell’humour palestinese, sale sul palco subito dopo e si trova una battuta servita: “Giuro che non parlerò in francese… e neppure in arabo, state tranquilli”. Dedica il Prix du jury per Intervento divino al produttore francese Humbert Balsan, “che mi ha impedito di autocensurarmi”.
Dalla Palestina alla Scozia: Paul Laverty, fedele collaboratore di Ken Loach, si esprime in scozzese, come i ragazzini di Sweet Sixteen e non ci sono sottotitoli stavolta. Parla dell’antica alleanza tra Scozia e Francia, prende in giro Bush, appena atterrato a Parigi, ringrazia Cannes per la difesa “della diversità e del cinema europeo” ma sono brandelli… Anche Paul Thomas Anderson – miglior regista ex aequo con il coreano Im Kwon-Taek – accenna qualche parola nella lingua locale e spiega che ogni americano, compreso Woody Allen, sa che la Francia è il posto migliore per far vedere i tuoi film. Mentre Olivier Gourmet, il falegname di Le fils dei Dardenne, inquadrato di nuca per un’ora e mezza ma lo stesso bravissimo, ha facile gioco a scusarsi di parlare francese… Poi dedica il premio agli attori belgi e cita una lista interminabile di persone. Come Moretti l’anno scorso. Irripetibile.
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