Dopo aver presentato più di ventidue titoli in nove giorni, è calato ieri sera il sipario sulla 40/a edizione della Quinzaine des Réalisateurs, la sezione non competitiva del Festival di Cannes celebre per aver scoperto e lanciato grandissimi talenti come Jim Jarmusch (a cui quest’anno è stata assegnata la Carrosse d’Or), Martin Scorsese, Chantal Akerman e i fratelli Taviani. Nonostante non attribuisca nessun riconoscimento ufficiale, la Quinzaine è stata la prima ad assegnare dei premi (quelli voluti dai partner e dagli sponsor della manifestazione), mentre c’è ancora la possibilità che uno dei titoli della sezione si aggiudichi la Caméra d’Or, il premio alla migliore opera prima scelta trasversalmente tra le varie sezioni.
Il giornalista e critico francese di “Le Monde” Jacques Mandelbaum, che ha seguito passo passo questa edizione della Quinzaine vedendo tutti i titoli in programma, ha fatto per Cinecittà News un bilancio finale della sezione nell’anno in cui è diventata una “splendida quarantenne”.
E’ stato possibile individuare una tematica dominante tra i ventidue film della Quinzaine di quest’anno?
Non c’è stata una predominanza di temi specifici, ma sono emersi senz’altro una preoccupazione politica e uno sguardo sociale forte. Mi riferisco a titoli come il franco-algerino Le dernier maquis di Rabah Ameur-Zaïmeche, che si svolge nella banlieue parigina e affronta un tema attuale e scottante come la costruzione di una moschea, registrando anche la crescita di importanza della religione nella vita sociale. Questa riflessione, in modo diverso, la fa anche De la guerre di Bertrand Bonello, che si interroga sullo smarrimento dell’individuo nella società moderna e sul ricorso alle sette per recuperare un senso di collettività.
C’è qualche cinematografia nazionale che si è fatta valere più di altre?
Rispetto alla Quinzaine non si può ragionare in termini geografici, perché è una sezione che, per definizione, valorizza la creazione e l’iniziativa individuale dei registi. Però ho amato molto i film francesi, che riflettono in modo interessante su ciò che sta succedendo oggi al cinema d’autore nel nostro paese. I nostri registi hanno dimostrato che si possono fare film importanti anche con pochi mezzi. Inoltre mi hanno colpito il film cileno Tony Manero di Pablo Larrain, una vera scoperta, e quello russo, Shultes di Bakur Bakuradze, in cui c’è un evidente influenza da Pickpockets di Bresson. Poi ci sono cineasti solitari e spesso radicali, che non possono definirsi rappresentativi del loro paese, come l’argentino Lisandro Alonso.
E il film italiano di Francesco Munzi?
Avevo trovato molto interessante Saimir, il suo film precedente, ma Il resto della notte l’ho trovato un po’ convenzionale e troppo scritto, con una recitazione poco libera e spontanea.
La Quinzaine dovrebbe essere la sezione più innovativa, ribelle, trasgressiva. Missione compiuta, per questa edizione del quarantennale?
La selezione di quest’anno è la migliore da molto tempo a questa parte e conferma la capacità di Olivier Père e del suo staff di sondare bene il terreno delle cinematografie più innovative. La politica di Père ha ridato alla Quinzaine il suo giusto valore e la sua identità, quella di una sezione che si prende dei rischi e che non lotta sullo stesso terreno della competizione ufficiale.
Se dovesse premiare un film della Quinzaine?
Sicuramente Tony Manero di Pablo Larrain, un film originale sia dal punto di vista linguistico che narrativo, un’opera che riesce ad essere anti-imperialista parlando della fascinazione per John Travolta e per il suo personaggio.
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