Circa un anno dopo Vento di primavera di Rose Bosch, il cinema francese torna ad occuparsi del rastrellamento del Velodromo d’inverno con La chiave di Sara dal 13 gennaio in sala con Lucky Red. La Sara del titolo è la piccola ebrea di appena dieci anni che nella calda estate del ’42 venne portata via dalla sua casa nel Marais e rinchiusa con migliaia di ebrei parigini in quella struttura sportiva per giorni, senza servizi igienici né acqua potabile, per poi essere deportata in un campo di concentramento, separata dai genitori, ammalata e affamata ma pronta a fuggire appena possibile per non tradire la parola data al suo fratellino.
La cosa più sconvolgente di questa storia è che gli aguzzini di Sara e degli altri ebrei non erano occupanti tedeschi ma collaborazionisti francesi, tanto che nel ’95 il presidente Jacques Chirac chiese ufficialmente perdono con queste parole: “Sono passati 53 anni, il 16 luglio del ’42, 4.500 poliziotti e gendarmi francesi hanno risposto alle esigenze dei nazisti. Quel giorno nella capitale e nella periferia parigina più di 10.000 uomini, donne e bambini sono stati arrestati nelle loro case al mattino presto e riuniti nelle stazioni di polizia. La Francia, patria dell’illuminismo e dei diritti umani, terra di accoglienza e di asilo, la Francia, quel giorno, ha compiuto l’irreparabile. Mancando alla sua parola, ha consegnato i suoi protetti ai loro carnefici”.
La vicenda del Vél’d’Hiv è ormai nota, ma il regista Gilles Paquet-Brenner racconta di essersi ispirato al libro di Tatiana de Rosnay “Elle s’appellait Sarah” – con questo romanzo è diventata l’autrice francese più letta negli Stati Uniti con un milione di copie vendute – proprio perché oltre a parlare di quell’episodio adotta uno sguardo contemporaneo e complesso. A guidarci nel passato è infatti una giornalista americana che vive in Francia e che ha sposato il figlio della famiglia francese che andò ad abitare nell’appartamento dei genitori di Sara, rimasto vuoto dopo la deportazione. “La storia – prosegue il cineasta, che ha reso omaggio a suo nonno, musicista ebreo tedesco denunciato dai francesi e morto all’inizio della deportazione – esplora anche zone d’ombra di cui si è sempre parlato poco, come il comportamento dei testimoni dell’epoca, dei quali collaborazionisti e partigiani costituivano solo una piccola parte. La maggior parte delle persone semplicemente faceva finta di non vedere, cercando così di salvarsi la pelle”. Ma forse il maggior punto d’interesse del film è la sua capacità di scandagliare le conseguenze di un evento storico tanto drammatico sulle generazioni future, spesso ignare di quello che è realmente accaduto perché per pudore, senso di colpa o eccesso di sofferenza, nonni e genitori non hanno voluto condividere con figli e nipoti quelle storie “e quando le storie non vengono raccontate, poi diventano un’altra cosa”. La chiave di Sara intreccia dunque vari piani temporali e narrativi lasciando che a guidarci sia la figura della giornalista americana, ruolo affidato all’anglo-francese Kristin Scott Thomas. Chiarisce il regista: “L’ho incontrata nel giorno della vittoria di Obama, andandola ad aspettare all’uscita del teatro dove recitava a Broadway. Lì, spinta dal desiderio di raccontare questa storia di cui aveva letto la sceneggiatura, ma soprattutto trascinata dalla strana euforia che regnava in città, mi ha detto sì. Il suo coinvolgimento è stato decisivo, non solo per trovare i finanziamenti, ma perché la sobrietà della sua recitazione mantiene il film a distanza di sicurezza da possibili trappole lacrimevoli. Lei rappresenta la coscienza dello spettatore”. Tra l’altro è proprio il suo personaggio a portarci, per la prima volta in un film, dentro al Memoriale della Shoah dove incontra uno storico che le spiega di voler sfuggire “alle cifre e alle statistiche per restituire un volto a ciascuno di quei destini”. Tesi sposata dal regista, che chiarisce: “Finora i film sull’Olocausto sono rimasti sul piano della storia con la S maiuscola, in questo Schindler’s List è insuperabile. Io volevo invece far sentire questa tragedia alla gente, per restituirle una dimensione concreta e umana, indipendentemente dalle origini di ciascuno”.
Tra i protagonisti del film da segnalare con i più noti Niels Arestrup e Aidan Quinn, la piccola Mélusine Mayance (Ricky di Francois Ozon) nel ruolo dell’indomita Sara che non si separa mai dalla sua chiave e dal tragico segreto che custodisce.
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