La Norvegia violenta di “Vegas”


La violenza sembra essere un vortice che non dà scampo. E attraversa le storie di Vegas, pellicola norvegese oggi in concorso ad Alice nella città . Nel film le vite di tre ragazzi difficili s’intrecciano, nell’istituto per giovani disadattati dove vengono mandati dall’assistenza sociale. Ognuno è a suo modo una vittima, e ciascuno cerca disperatamente un riscatto alla violenza subita. Condividono il senso di abbandono e il sogno di ricostruire la famiglia persa o mai avuta. Ma nonostante uniscano le forze e riescano a creare un legame affettivo tra loro, la violenza torna a galla, fino a rendere carnefice chi fu vittima. Perché, spiega il regista Gunnar Vikene, “i giovani tendono, in un primo momento, ad imitare il comportamento degli adulti”. E dunque la violenza subita non può che avere uno sbocco violento.

Una mancanza d’affettività che neanche gli istituti d’assistenza sembrano poter colmare. Tant’è che le statistiche indicano nove bambini su dieci, provenienti da un istituto, con un futuro legato a criminalità o tossicodipendenze. “L’errore – spiega Vikene, che prima di girare il film ha lavorato in strutture assistenziali – è investire economicamente molto negli istituti, che sono solo un surrogato di famiglia. E non farlo abbastanza nelle famiglie affidatarie, che vengono lasciate sole col compito difficilissimo di costruire una relazione con ragazzi problematici. Ma questo richiede un percorso, lungo e costoso, di assistenza specializzata”.

Tra i personaggi di Vegas, Thomas è un ragazzo inizialmente dolce e premuroso, che ha visto la madre ripetutamente picchiata dal suo nuovo compagno. Non è riuscito a far niente né per lei, né per il fratellino costretto ad assistere alla violenza. E a peggiorare la situazione, dopo l’ennesima lite, alla madre viene tolto l’affidamento dei due fratelli, che vengono allontanati uno all’atro. E così Thomas, arrabbiato per essere stato scartato dalla madre che preferisce ai figli l’amore malato del suo uomo, finisce lui stesso per picchiarla. Supera così un confine e non potrà più tornare indietro da lei, ma così facendo diventa adulto. “Non avrei mai fatto questo film se non avessi capito, anche se non la giustifico, la rabbia di Thomas, sottolinea il regista. A un certo punto il ragazzo smette di scagionare la madre per i suoi errori, e capisce che non può farsi carico di responsabilità più grandi di lui, come quella del suo fratellino, che affida finalmente alle cure di una nuova famiglia”.

Altro protagonista del film è Terje, e con la sua storia il regista tocca, e lo fa con estrema leggerezza, il tema del suicidio. Terje ha appena perso la mamma, scomparsa dopo un incidente in mare che lui stesso ha involontariamente provocato. E non si rassegna all’idea, tant’è che a un certo punto decide di raggiungerla. “Ma non è un uccidersi consapevole – sottolinea Vikene- lui semplicemente vuole trovarla”. E quello dei suicidi tra i più giovani in Norvegia, come in Svezia, è un vero dramma sociale, di cui non è semplice trovare una spiegazione, considerando l’altissimo tenore di vita del Paese. “In Norvegia sono andati perduti una serie di valori tradizionali, come quello dell’assistenza agli altri – prova a spiegare il regista. Le persone sono concentrate solo su se stesse, e l’egoismo va di pari passo con la solitudine”. Un individualismo alimentato forse proprio dalla possibilità di accesso al denaro, che ha creato una corsa incondizionata verso tenori di vita sempre più alti. Tant’è che in Norvegia, alle ultime elezioni, ha conquistato il 25% dei voti un partito che ha apertamente dichiarato di voler tagliare ogni assistenza alle classi più povere, in nome della crisi finanziaria.

E’ infine parlando di Marianne, una ragazzina violenta, rifiutata per l’ennesima volta da una famiglia adottiva e che finisce in prigione per omicidio, che Vikene presenta le tante ragazze da lui incontrate nella prigione di Bergen. La loro paura maggiore è quella di essere rifiutate, e questo le porta a mostrarsi agli altri sempre con aggressività. Alzano un muro nei confronti del mondo, ma in realtà sono le più sole e fragili perché non riescono ad aprirsi a nessuno, per paura di soffrire. E questo rende assai difficile aiutarle. Ma rivela il regista: “Ho voluto dar loro un’occasione. Nella scena finale c’è la zia di Marianne che va a trovarla in carcere. E a me piace immaginare che diventi la sua possibilità di salvezza”.

autore
17 Ottobre 2009

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