ROTTERDAM – Si è svolta al Festival di Rotterdam l’anteprima mondiale de La guerra dei cafoni, il film di Davide Barletti e Lorenzo Conte (prodotto da Minimum Fax Media e in uscita in Italia in primavera) che dopo un rapidissimo passaggio alla Festa del Cinema di Roma 2016 – con una proiezione esclusivamente dedicata agli under 18 – è approdato con successo alla kermesse olandese. La guerra dei cafoni è un film difficile da definire: un’opera stilizzata con ambizioni universali ma al contempo una storia tutta italiana, un film che sembra partire dalle trame tipiche del film per ragazzi per allargare lo sguardo verso un trattamento adulto dei temi ricorrenti del genere, come del resto già fa l’omonimo libro di Carlo D’Amicis da cui è tratto. Invece di inseguire i soliti cliché del tricolore, studiati a tavolino per guadagnarsi il consenso del pubblico straniero, La guerra dei cafoni propone, attraverso una fiaba molto realistica in cui le uniche presenze umane sono quelle di bambini e adolescenti, un viaggio alla scoperta di un Sud Italia in cui tragedie e conflitti sembrano ripetersi costantemente senza speranza di risoluzione. Qualcosa di ancestrale che viene palesato fin dal prologo (in cui compare Claudio Santamaria nei panni di un cavaliere antico che parla bizantino) ambientato in un periodo storico volutamente poco definito, in cui vediamo scontrarsi aristocrazia e popolo e ci si immerge nell’eterna opposizione fra “signori” e “cafoni”. Una guerra ereditata e combattuta dai ragazzi: quelli ricchi per mantenere il proprio status e fare sì che nulla cambi e quelli poveri in perenne lotta per la sopravvivenza. Tutto questo sullo sfondo del paesaggio salentino della metà degli anni ’70, anche questo colto nella sua veste meno conosciuta: le paludi, le spiagge più impervie, le campagne incolte, un’isola inventata, Torrematta, che ripropone l’immagine di un Sud indubbiamente affascinante ma non certo da “cartolina”.
“Ci siamo innamorati del libro di D’Amicis parecchi anni fa, ma da subito abbiamo desiderato farne un film – dice Davide Barletti – entrambi ci trovavamo in un periodo particolare della nostra vita, stavamo per diventare padri e forse questa è la ragione per cui ci siamo appassionati così tanto a questi ragazzini, ma credo che la spinta sia stata anche voler chiudere un ciclo, una sorta di rito di passaggio per dire addio alla nostra giovinezza. E poi c’è il fatto che la nostra generazione è stata testimone di un cambiamento epocale, quello che ha mutato in parte la lotta fra “cafoni” e “signori”: l’avvento della piccola borghesia, profetizzata da Pier Paolo Pasolini, che ha sparigliato le carte…”. Ed è proprio nel momento in cui fra le due fazioni opposte si inserisce un nuovo personaggio misterioso, che non è né signore né cafone, che ha i soldi per comprarsi ciò che vuole ma il suo più grande desiderio è emulare il capo dei ricchi, che nella storia si legge più chiaramente la metafora della lotta di classe. Il film è reso prezioso anche dalla la cura con cui è stato scelto il cast (“abbiamo provinato più di un migliaio di ragazzi prima di selezionare quelli che poi abbiamo scelto, organizzando anche un lungo laboratorio propedeutico al film”), dal talento visivo dei due registi, dalla recitazione dei giovani attori, alle prese con il dialetto per tutto il film e che provenendo da zone diverse della regione hanno dato vita ad una sorta di “polifonia dialettale”.
Un’opera che sa osare anche secondo il direttore del Festival di Rotterdam Bero Beyer, “altrimenti non sarebbe stata selezionata all’interno di una manifestazione che si interessa soprattutto a film non canonici, realizzati da registi che sembrano disinteressarsi dei format più ricorrenti e che sembrano aver accantonato i manuali di regia”. Non è un caso infatti che anche gli altri film italiani scelti da Bero Beyer (Mister Universo, L’amatore, La ragazza del mondo, I tempi felici verranno presto) rientrino perfettamente nella visione del cinema del direttore: “Troppo spesso, in questi ultimi anni, nel cinema europeo si assiste a una mancanza di coraggio da parte dei produttori, che non finanziano opere innovative e fuori dal coro per ripetere sempre le stesse formule rassicuranti. L’Italia non fa eccezione, e il flop dei vostri film di Natale di quest’anno dimostra che queste formule prima o poi si usurano, e che se non si è investito su qualcosa di nuovo non c’è nulla che le possa sostituire”.
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