‘La festa del ritorno’: ritratto della Calabria ‘arbëreshë’

Gli arbëreshë, ossia gli albanesi d'Italia, detti anche italo-albaneso, sono la minoranza etno-linguistica albanese storicamente stanziata in Italia meridionale e insulare.


La storia de La festa del ritorno, di Lorenzo Adorisio, in anteprima al cinema Adriano di Roma, oggi, lunedì 13 novembre alle ore 21.00, racconta di un figlio e suo padre all’interno di una di queste comunità.

Il ragazzo si trova costretto a crescere velocemente per prendere il ruolo del genitore e proteggere sua sorella. Un’infanzia vissuta in libertà e passione. Un uomo che emigra per garantire un futuro migliore alla sua famiglia. Un amore vissuto lontano dalla propria terra, con un segreto da custodire. Si esplorano lingua e tradizioni. Tutto si svolge in un paese del sud, immerso in una natura selvaggia, tra montagne e mare, dove si impara nel meravigliarsi di una terra dal carattere forte, ricca di sapori, nostalgia e frustrazione. Infine, un colpo di pistola per rimettere ordine nel caos.

Nel cast Alessio Praticò, Carlo Gallo e Daniele Procopio.

Il film, girato in varie località della Calabria come Cirò, Melissa, Carfizzi, Crucoli e Verzino, è una collaborazione tra Italia e Francia, prodotto da Alba Produzioni in Italia e da Gorilla Group e Leon Film in Francia, con il sostegno del Ministero della Cultura, della Fondazione Calabria Film Commission, della Lazio International e il patrocinio dei Comuni di Carfizzi e Cirò.

“Era il 1972 e avevo dieci anni – racconta Adorisio – quando mio padre portò me e i miei fratelli, per la prima volta, a visitare la sua casa in Calabria, sulla costa ionica dove era nato e vissuto fino all’età di sedici anni. Era una realtà che sembrava tenerci nascosta, quasi una vergogna per lui che era riuscito a evadere dal paese, laurearsi e divenire un importante ingegnere progettista di ponti e strade in tutto il mondo. Nel suo intento, noi figli non dovevamo subire quella ristretta, retrograda, bigotta e invadente mentalità che avrebbe influenzato la nostra educazione e le nostre scelte di vita. Dovevamo crescere liberi da tutti quei condizionamenti; pensava che l’unico modo per evolverci, aprire gli occhi, trovare la nostra strada, sarebbe stato lo studio e la cultura. “Si vede quel che si sa” ripeteva sempre. E così, io e i miei fratelli, siamo natie cresciuti a Roma. Passavamo le vacanze alla casa al mare in Toscana, e potevamo scegliere di andare a scuola solo al liceo classico o allo scientifico. Mio padre acquistò anche una libreria nel centro della capitale, convinto che sarebbe stato uno stimolo irrefrenabile alla nostra cultura”.

La Calabria non viene sempre raffigurata come un territorio facile in cui vivere: “Per mio padre – continua il regista – rappresentava un luogo lontano da evitare; crescere li significava sottostare a tutte le sue leggi, reprimere tutte le ambizioni e probabilmente diventare ottusi o mafiosi. E così, quando visitai per la prima volta il paese e la casa di mio padre rimasi colpito, affascinato e effettivamente spaventato allo stesso tempo. Mi apparve e mi appare tuttora un mondo che non mi appartiene, anche se rimango attratto come una calamita dal mistero che emanano le case, i vicoli, gli anziani contadini, l’immensa vallata che circonda il paese. Un mistero ancora vivo che si svela gradualmente, difficile da descrivere perché ha a che fare direttamente con gli elementi della natura che ha insegnato e insegna ancora oggi agli abitanti del paese a vivere.

Ho ancora un filmino in 8mm che girai in quei giorni: la grande casa di mio padre era ancora abitata da due anziane zie e da uno zio, Vincenzo, a cui mio padre, qualche anno prima, aveva regalato un televisore, ma non si poteva accendere, lo zio diceva che era molto pericoloso, inquinava l’aria. Nel filmino si vedono i muli carichi di legna che attraversano i vicoli, le donne vestite di nero instancabilmente affacciate alla finestra, egli sfacciati ragazzini di appena dieci anni che sfrecciavano pericolosamente con i motorini per i vicoli. E poi ci siamo noi, vestiti alla moda, con i Jeans a zampa d’elefante e i capelli lunghi. Noi e loro, due realtà contrastanti che si attraggono”.

Ma per molti si tratta di un luogo da cui fuggire. Il film nasce allo stesso modo da esigenze personali e dall’ispirazione al romanzo di Carmine Abbate, dal titolo omonimo: “Da quel giorno più volte sono tornato nel corso degli anni al paese di mio padre – conclude l’autore – sempre armato di macchina fotografica e cinepresa. Una volta, mentre stavo facendo delle riprese nella piazza del paese, un ragazzo mio coetaneo mi urla da lontano in dialetto: “fammi la cortesia riprendi a me, portami a Roma”. Questo “Portami a Roma” mi è sempre riecheggiato. Io ragazzo fortunato che vive a Roma avrei avuto il potere con una cinepresa di portare tutti a Roma, e perché no? Sicuramente una sfida interessante: così è nato il cortometraggio Chora (paese sulla collina che domina il mare). Ebbe molto successo. Vinse il primo premio in quasi tutti i festival italiani ed ebbe molti riconoscimenti anche all’estero. Incoraggiato, mi misi subito alla ricerca di una storia da raccontare per un lungometraggio da ambientare sempre in Calabria e proprio nel 2004 usci il libro di Carmine Abate “La festa del ritorno”. Il romanzo di Abate ha tutti gli elementi utili che mi hanno sempre affascinato per raccontare una storia di una terra apparentemente lontana, ma che mi appartiene per tradizione e cultura”.

 

Andrea Guglielmino
13 Novembre 2023

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