“Dal 9 luglio al 2 settembre, Movies Inspired propone un listino agli esercenti cinematografici con la speranza di poter riaccendere le luci dei cinema”, dichiara Stefano Jacono, CEO e Founder, che ha “sempre creduto nella centralità della sala cinematografica per il successo dei nostri film di qualità. In questo periodo complesso per tutto il sistema che ruota attorno al cinema, lanciamo un progetto distribuendo 12 prime visioni a partire da luglio, a disposizione dei cinema che decideranno di riaprire e delle arene di tutta Italia”.
E così dalla Francia arriva Nel nome della terra, una pittura bucolica nell’estetica, quando dilaniante è l’essenza realistica del film, considerando che il Paese di cui vanta la nazionalità è quello con l’estensione agricola più grande d’Europa, una delle prime economie occidentali, con il primato di un suicidio al giorno, quelli dei contadini francesi dinnanzi al non riconoscimento del giusto reddito rispetto al proprio mestiere.
Un dramma vivissimo e reale, a cui il film ha dato eco, con un punto di vista peculiare e intrinseco, quello di Edouard Bergeon, regista di Nel nome della terra (debuttante dietro la macchina da presa nel 2012 con il doc Les fils de la terre) e figlio di un allevatore che, soffocato dai debiti, si è tolto la vita, a cui sullo schermo dà anima e corpo un intenso Guillaume Canet.
“Nel nome della terra trae spunto dalla mia storia di famiglia, è anche un film sulla famiglia”, ha dichiarato il regista, per cui “Pierre è direttamente ispirato a mio padre e alla sua esperienza di agricoltore. Sono figlio di una lunga stirpe di contadini sia da parte di madre che di padre. Christian Bergeon, mio padre, ha cominciato a lavorare nel 1979 con desiderio e passione. Con l’aiuto di mia madre ha lavorato sodo. Io e mia sorella vivevamo felici nella nostra fattoria fino a quando tutto è cambiato perché cambiava inesorabilmente il mondo agricolo. L’idea di un lungometraggio di finzione a lui dedicato è venuta al produttore Christophe Rossignon, rimasto molto colpito dal documentario Les fils de la terre”. Con questo film, “Volevo mostrare quanto e quale amore leghi i componenti della famiglia di Pierre: al di là dell’appartenenza al contesto rurale, chiunque potrà riconoscersi nelle dinamiche tra i due genitori e i figli. La tenerezza dei primi anni fa dimenticare il peso del lavoro stesso in fattoria. Diciassette dopo, però, la tempesta: la globalizzazione ha stravolto ogni cosa e Pierre tenterà un’ultima disperata carta chiedendo un prestito in banca. Non ha grandi pretese, vorrebbe diversificare la sua produzione e dare il via a un allevamento di polli, ma rimane vittima della perversità di un sistema malato. La realtà di un contadino o di un allevatore è oggi una delle più dure. Le grosse aziende hanno preso il sopravvento sulle fattorie e il contadino, il produttore, non ha più libertà di scelta o di decisione sul prezzo di vendita. In più, non può contare sulla solidarietà degli altri contadini: la gelosia ha reso tutti nemici l’uno con l’altro e ha fatto sì che sopravviva solo chi ha la fattoria più moderna ed è in grado di annientare il suo vicino, anche con la diffusione di voci maligne e infondate”.
La storia per il cinema inizia nello statunitense Wyoming, da cui Pierre Jarjeau, 25 anni, torna per trovare la fidanzata Claire (Veerle Baatens), ma anche per farsi carico della fattoria di famiglia, Les Grands Bois. Nell’arco di un ventennio, di pari passo, famiglia e fattoria si allargano, floridità da giorni felici in principio, ma l’accumulo dei debiti mette in affanno Pierre, stremato dal lavoro, che lo affossa nonostante il rassicurante abbraccio famigliare, e il fedelissimo figlio adolescente, Thomas (Anthony Bajon), inerme al precipitare del padre.
Sono gli effetti dell’industrializzazione del mestiere agricolo, a partire dagli anni ’90, a dettare la logica del produrre sempre di più: si solleticano gli agricoltori con la promessa degli aiuti comunitari e dei gruppi agroindustriali, che hanno tradito la categoria con la chimera di redditi maggiori, a fronte, nella realtà dei fatti, di supporti sempre inferiori e debiti crescenti.
Edouard Bergeon, con il suo primo lungometraggio di finzione, denuncia il modello agricolo presente: la sua esperienza in prima persona gli fa narrare una storia che anela all’umanità in quella vita che campa di campi, spazi abusati da pesticidi e soffocati da allevamenti intensivi, un crimine contro l’ambiente, gli animali – spesso qui messi in scena nella loro commovente innocenza, e l’essere umano stesso.
Il pubblico della provincia francese ha molto apprezzato il film, per un naturale e spontaneo riflettersi nelle questioni trattate, con coraggio, ma altrettanta delicatezza: una denuncia decisa, quella di Bergeon, al contempo rispettosa, non strillata, sbattuta in faccia, ma la cui intensità vive proprio nel suo essere pragmatica eppure non strumentalizzata o pietistica; la scelta di togliersi la vita disegna il gesto ultimo alla rassegnazione verso un sistema che non sceglie l’Uomo e la Natura, ma ancora una volta il profitto.
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