BERLINO – L’ultimo film del regista svizzero Lionel Baier, in concorso, è un adattamento del romanzo La cache di Christophe Boltanski, vincitore del Prix Femina, prodotto da Bande à Part Films e co-prodotto con Red Lion, Les Films du Poisson, RTS Radio Télévision Suisse e SRG SSR, quindi coproduzione tra Francia, Svizzera e Lussemburgo.
La commedia drammatica si incentra su una famiglia eccentrica nella Parigi del maggio 1968: un bambino di nove anni è felice di stare dai suoi nonni. Insieme a loro, ai suoi due zii spensierati – un artista visivo e un giovane intellettuale – e alla sua stravagante bisnonna proveniente da Odessa, trascorre diversi giorni nell’appartamento dei nonni, mentre i suoi genitori partecipano alle leggendarie proteste studentesche.
Il paese è in subbuglio e anche i membri della famiglia devono confrontarsi con il proprio passato. Quando un altro illustre ospite cerca rifugio presso di loro, la sua presenza porta a nuove rivelazioni e riflessioni sulla storia familiare.
Il cast corale include Dominique Reymond nel ruolo della Nonna, il compianto Michel Blanc nei panni del Nonno (Père-Grand), William Lebghil nel ruolo del Grande Zio e Aurélien Gabrielli come il Piccolo Zio. Liliane Rovère interpreta Hinterland, mentre Adrien Barazzone e Larisa Faber vestono i panni del padre e della madre del ragazzo protagonista, interpretato da Ethan Chimienti. Gilles Privat si aggiunge al cast in un ruolo di supporto chiave.
Il film si apre con la frase “In un mondo pulito, devi essere sporco. I batteri ci proteggono.”
“È una citazione diretta dal romanzo – spiega il regista a ‘Variety‘ – Credo che il nonno si protegga dal male addomesticandolo. Non dobbiamo averne paura, ma piuttosto usarlo e deviarlo per fare del bene. È anche un avvertimento: ricordiamo che l’igienismo ha portato alle peggiori atrocità. Bisogna amare lo sporco. Questo è un problema nei film di oggi: le strade sono troppo pulite, non si vede la polvere e l’aria nelle inquadrature. È un anacronismo in “The Safe House”: per esempio, l’aria di Parigi nel 2024 è troppo trasparente. Non si vede. E i muri sono troppo bianchi. Mi piace il libro di Boltanski perché, come tutti i grandi scrittori, parlando della sua famiglia, parla della nostra. Ho mescolato i miei ricordi con i suoi. Nel romanzo, il Maggio ’68 è menzionato in una sola frase, ma per me era importante raccontarlo. Ho voluto realizzare il film per la scena in cui l’auto si rompe a pochi chilometri da Odessa. Non è esattamente come nel libro, ma capisco il concetto di preferire l’Odessa raccontata dalla bisnonna alla realtà. Lo stesso ho fatto con il passato della mia famiglia. Ho smesso di cercare la verità: quello che mi racconto è molto meglio.”
La conferenza berlinese si distingue per essere l’ultima del concorso.
“Quando ho letto il libro – commenta Baier – mi sono detto che era un’opportunità perfetta per parlare della Shoah e dell’Olocausto, ma non in modo diretto, perché non volevo fare un film che fosse una ricostruzione di quel periodo, con persone che indossano costumi nazisti e tutto il resto. Non mi sarei sentito a mio agio nel chiedere a un attore di sistemare meglio la sua svastica sulla giacca per essere più inquadrato, quindi non volevo fare questo tipo di film e non mi sentivo a mio agio nel ricostruire la guerra.
Ma il libro di Christophe non era facile. Non era affatto facile. Era forse impossibile adattarlo. Anche quando l’ho chiamato per chiedere se fosse possibile ottenere i diritti del libro, mi ha detto: “Per favore, fallo, ma è impossibile adattarlo”.
Ed è proprio per questo che volevo provarci, perché un buon libro – e, ovviamente, un buon libro – può dare vita a un brutto film. Era quindi una sfida immaginare come riorganizzare la storia e trattare tutti i temi presenti nel libro di Christophe in modo più elegante e impressionante. E’ stato straordinario avere questa libertà, perché Christophe è stato così elegante con me, dicendomi: “Fai quello che vuoi con il libro. Sarà il tuo film. Non voglio partecipare al processo di scrittura del film, ma sentiti libero di fare quello che vuoi con la mia famiglia”.
Questo per me è stato assolutamente incredibile. Così io e la sceneggiatrice Catherine Charrier ci siamo sentiti liberi e abbiamo deciso di reinventare l’intera storia basandoci su tutto ciò che è scritto nel libro”.
C’è anche l’autore del romanzo a confermare quanto detto: “Ci sono mille modi diversi per rappresentare un testo. Si può essere fattualmente precisi e, alla fine, produrre qualcosa che in realtà non ha nulla a che fare con il libro. Al contrario, si possono prendere delle libertà nel modo in cui si sviluppa un libro e, tuttavia, rimanere completamente fedeli ad esso. Ed è proprio quello che Lionel ha fatto qui. C’è l’isolamento, il fatto di essere chiusi in un luogo. C’è il tema della famiglia. Naturalmente, ci sono molti elementi che non sono esattamente come nel libro, ma in realtà si tratta di un adattamento molto fedele”.
Poi Baier approfondisce: “fin dall’inizio, con Catherine, ci siamo detti che nel film ci sarebbe stata una voce narrante. E ce ne siamo resi conto mentre scrivevamo il testo. Abbiamo capito che spiegava molte cose, soprattutto riguardo alla complessità delle relazioni intergenerazionali. A volte, però, era un po’ noioso avere un bambino che parlava di certi argomenti. Abbiamo attraversato diverse fasi. E il risultato che vedete nel film definisce anche la sua struttura.
Nel film, infatti, è il regista che parla più volte. Dice di aver adattato il libro di Christophe, e questo crea una certa distanza. Una distanza doppia, perché quando si legge il libro, ci si rende conto che non è un resoconto puramente fattuale, è già un passo oltre. E il film, a sua volta, è una versione ancora più romanzata. L’unica voce che poteva davvero trasportare questa storia era quella del regista”.
Protagonista della conferenza anche una raggiante Dominique Reymond, che interpreta la nonna: “una madre coraggiosa, che protegge la sua famiglia, la tiene sotto la sua ala, al sicuro – dice – Il fatto che sia disabile non la definisce completamente, la vedo piuttosto come una donna che vive con coraggio, senza lasciarsi abbattere. Ho sempre pensato che questo le conferisse una certa durezza, una resistenza. E poi c’è l’amore Per molto tempo, l’amore è stato qualcosa legato all’idea di seduzione, all’attrazione fisica, al desiderio dell’altro. Soprattutto quando sei un attore, cerchi sempre di essere qualcuno che l’altro vorrebbe vedere.
Hai questi modelli in testa, uno dopo l’altro. In un certo senso, la vita dipende dal desiderio dell’altro. E questo, alla fine, ti toglie una parte di libertà. Non sei più libera come quando avevi 12 o 13 anni. Dopo i 14, entri in una fase in cui non appartieni più completamente a te stesso, perché, volente o nolente, diventi un oggetto di desiderio. È quello che la società ci mostra. Le persone non ti guardano negli occhi, guardano più in basso, diciamo. Lo impari molto rapidamente.
E allora costruisci una personalità che corrisponda a quel desiderio, che dura per un certo tempo. E poi, a un certo punto, tutto questo finisce. Ed è fantastico quando finisce. È quello che sto vivendo io, ed è quello che vive anche la nonna nel film. Non fai più parte di quella narrazione. E finalmente puoi ritrovarti. È qualcosa di enorme, ma è una verità profonda per me. All’improvviso, torni a essere ciò che eri prima: un essere umano libero. Né uomo né donna, né ragazzo né ragazza. Solo un essere umano. Fino ai 13 anni hai questa sensazione fortissima: non hai paura di nulla, vuoi conquistare il mondo intero.
Il vero amore è quello che costruisci con il tempo, come un maglione che intrecci con i tuoi amici, con la tua famiglia, con i bambini di tutto il mondo. Amiamo tutti i bambini del mondo e ogni bambino che soffre è come se fosse il nostro stesso bambino. Questo è il vero amore”.
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