La ballata di Massimo, il clown triste

Quest'anno si celebrano i 30 anni dell'ultimo capolavoro di Massimo Troisi, 'Il Postino', girato tra Cinecittà, Roma, Salina e Procida nella primavera del 1994


Io c’ero quel primo settembre 1994 quando tutta la Sala Grande della Mostra del Cinema di Venezia si alzò in piedi per un applauso lunghissimo, emozionato, quasi in simbiosi con le immagini che finivano di scorrere sullo schermo, per salutare un’ultima volta Massimo Troisi e il suo “Postino”. Ricordo Gillo Pontecorvo, allora direttore della Mostra, coi lucciconi e Roberto Perpignani, il montatore-demiurgo che aveva fatto miracoli per terminare il film in tempo utile, quasi stupito di tanto generoso calore. In fondo era il lieto fine di un miracolo laico: l’ultimo ciak era stato battuto a Cinecittà il 3 giugno, Massimo se ne era andato nella notte dello stesso giorno: in tre mesi si era fatto tutto e quel montaggio non è mai stato più ritoccato nella sua perfezione. Ma quel rito collettivo che sembrava l’ultimo saluto, era invece solo l’inizio dell’inarrestabile cavalcata de Il Postino, con la regia di Michael Radford, l’interpretazione di Philippe Noiret nei panni del poeta esule Pablo Neruda e un’esordiente indimenticabile – Maria Grazia Cucinotta – in quelli della giovanissima Beatrice. Uscito nelle sale italiane il 22 settembre il film fu subito un grande successo, proiettato verso l’Oscar con 5 nominations e una statuetta al musicista Luis Bacalov.  Da qui ai cinema americani (anche in versione doppiata) il passo fu breve per un totale d’incasso di oltre 80 milioni di dollari, record assoluto per un film italiano nel mondo.

Ma non era ai soldi che Troisi aveva pensato innamorandosi del romanzo di Antonio Skármeta, dannandosi l’anima per comprare i diritti, adattando la storia al Sud isolano dei primi anni ‘50 con la complicità di Anna Pavignano, Furio e Giacomo Scarpelli e Michael Radford alla sceneggiatura, gettando nel calderone del progetto tutta la sua energia residua e, non metaforicamente, il cuore. Nella leggenda degli artisti napoletani affacciatisi al successo alla fine degli anni ’70, Troisi precede di qualche anno Pino Daniele. Il primo, nato a San Giorgio a Cremano il 19 febbraio del 1953 debuttava con Ricomincio da tre nel 1981; Pino, napoletano dl 1955, faceva il front man di Bob Marley nel concerto a San Siro del 1980. Entrambi si portavano dietro quella fragilità cardiaca fin dall’infanzia che li avrebbe portati via troppo presto. Entrambi avrebbero cambiato l’immagine della cultura partenopea traslocandola sulla scena internazionale con un understatement ironico e sommesso che apparteneva solo a loro. I due si volevano bene davvero. Quando Daniele fece uscire nel 2008 un cofanetto intitolato Ricomincio da 30 volle che la dedica fosse esplicita e scrisse sul retro del CD: “Caro Massimo questo progetto è dedicato a te. Nu Bacio! Pino”. Le intermittenze del cuore sono state la loro caratteristica più intima e segreta che andava di pari passo con una dolcezza contagiosa. Così ne parlava Philippe Noiret: “Massimo aveva l’anima sul volto. Il Capitan Fracassa di Scola me lo fece conoscere, lo vidi e subito mi piacque. Poi arrivò Il Postino, dandomi la possibilità di lavorare insieme a lui, in un’esperienza unica. Penso che in tutta la storia del cinema, non ci sia nessun film simile”.

La storia di quel film è nota: Troisi aveva paura della doppia fatica da attore e regista dopo Pensavo fosse amore…e invece era un calesse del 1991. Aveva visto i film di Michael Radford, lo stimava ed erano diventati amici. Così, dopo qualche ritrosia, lo convinse a dirigere il “suo” progetto e per “annusarsi” girarono anche qualche scena preparatoria a Pantelleria nell’estate del ’93. Le riprese con gli attori sarebbero dovute partire a settembre, ma un’infausta diagnosi medica sul cuore di Massimo obbligò tutti ad aspettare. Sappiamo che in realtà si sarebbe dovuto attendere di più, fino al trapianto programmato negli Stati Uniti, ma che Troisi volle rimandare per vedere concluso il suo sogno. Così si cominciò a girare il 14 marzo 1994 a Cinecittà, per un periodo di 12 settimane tra Roma, Salina e Procida, ai ritmi che la fatica del protagonista concedeva. Alla fine Massimo era esausto, ma ogni giorno portava comunque sul set la sua felicità e un’allegria malinconica con cui si faceva scudo di una malattia di cui non voleva parlare. Era ridotto all’ombra di se stesso, il volto scavato, le occhiaie profonde, ma non cedeva di un passo; solo qualche volta si fece sostituire da una controfigura e tirò un sospiro di sollievo quando si batté l’ultimo ciak il 3 giugno, di nuovo a Cinecittà. La fine degli eroi è sempre grandiosa; quella del clown triste di San Giorgio a Cremano, tenero pulcinella dai grandi occhi dolci fu discreta com’era lui: andò a riposare nella villetta della sorella all’Infernetto vicino a Ostia, chiuse gli occhi e non li aprì più. Aveva 41 anni.

“Quando manca una persona come Massimo Troisi si spegne qualcosa, nel tuo universo personale e poi nell’universo del mondo dello spettacolo” ha detto Vincenzo Mollica in un’intervista rilasciata all’Archivio Luce di Cinecittà, aggiungendo che “nella mia memoria quello che vive con più forza è, sicuramente, la sua grande arte, ma ancor di più la tenerezza della sua umanità, che era qualcosa di veramente raro”.   Anche per questo la Mostra di Venezia, insieme alla SIC e alle Giornate degli Autori, ha accolto il desiderio di Maria Grazia Cucinotta e il 6 settembre ripresenterà Il Postino alla presenza del cast e degli amici di Massimo.

E poi c’è il film: una bella storia di amicizia intessuta del potere della poesia che rompe gli schemi e supera le barriere. Mi immagino sia accaduto così – del resto lo si vede nel making of – fra Troisi e Noiret: prima ciascuno parla nella propria lingua e sembra che solo la professionalità del francese tenga insieme la scena. Poi invece è la lingua di Troisi che si fa universale e l’altro gli dà la replica come se la capisse da sempre; perché nel tempo il dialetto dell’uno si era riscoperto lingua e quei suoni diventavano naturali. Del resto è quello che accadde agli spettatori del ‘94: molti non capivano subito la parlata di Mario (il timido postino che impara a comprendere Neruda, la sua arte e la sua visione politica), ma dopo poco entravano  nel suo mondo, nella sua isola, proprio come il grande cileno in esilio. Perché consideriamo Il postino un capolavoro? Forse per la semplicità con cui scorre placido lungo le anse del racconto, senza manierismi, senza bellurie, ma anche senza inutili patetismi. Forse per l’umiltà con cui tutti ci hanno lavorato, levigando ciascuno la sua arte per farla sembrare così spontanea che sembra vita vera, anche nella ricostruzione d’epoca (siamo nei primi anni ’50), anche nel piccolo paradosso di un Premio Nobel sbarcato nel Sud dell’Italia dal Sud America. Certamente è importante la forza originaria del romanzo di Skármeta, riscritto ma non tradito dal suo ammiratore italiano e dai suoi compagni d’avventura, così come il montaggio da orologiaio sapiente di Roberto Perpignani – un  gigante – ha saputo rendere la forza delle parole legandole ogni volta ai suoni e agli sfondi della natura. Ma alla fine vince su tutto Massimo Troisi che, all’ultimo passo come Molière quando sperava di morire in scena, entrò in quella storia quasi con timidezza, se la cucì addosso e ne fece la gloria che aveva sempre sognato e mai confessato.

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11 Agosto 2024

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