“Questo film è l’incontro tra due mondi che mi affascinano: quello dell’arte contemporanea e quello dei rifugiati; due mondi chiusi, governati da codici completamente diversi. Da un lato, un mondo fatto di élite, in cui libertà è la parola chiave, dall’altro un mondo di sopravvivenza, influenzato dagli eventi attuali in cui l’assenza di scelta è la preoccupazione quotidiana dei rifugiati. Il contrasto tra questi due mondi, nel film, mostra una riflessione sulla libertà”, queste le parole della regista tunisina Kaouther Ben Hania (Beauty and the Dogs, selezione ufficiale di Un Certain Regard nel 2017; Challat of Tunis, il suo primo lungometraggio, ha aperto la sezione ACID al Festival di Cannes 2014; il suo secondo documentario, Zaineb odia la neve, in anteprima al Locarno Film Festival 2016), autrice de L’uomo che vendette la sua pelle, opera candidata agli Oscar 2021 come Miglior Film Internazionale, e premio Orizzonti per il Miglior Attore – Yahya Mahayni – alla Mostra di Venezia 2020.
Sam Ali nel periodo 2011-2012 lascia la Siria, il suo Paese, martoriato dalla guerra, dapprima rifugiandosi in Libano, per lui imprevedibile portone spalancato verso l’Europa e il Mondo: quella di Sam, però, non è la storia travagliata di migliaia di connazionali, ma la storia eccezionale di un uomo che un artista americano, Geffrey Godefroy (Koen De Bouw), ha fatto diventare un’opera d’arte vivente, tatuando sulla sua schiena un passaporto Schengen, infatti “la merce è più libera delle persone”, dice in una frase iconica il personaggio dell’artista nel film.
Il culto dell’Arte, la mercificazione, il narcisismo, i compromessi che gli individui e la società sono disposti – o meno – ad accettare: l’opera dell’autrice tunisina, seppur differente nella trama, porta alla mente quella letteraria di Quando ero un’opera d’arte di Eric-Emmanuel Schmitt, permettendo di incontrare numerosi punti di contatto sulle tematiche essenziali che correlano essere umano e libertà, nell’immaginifico quanto crudele universo dell’Arte.
“Per interpretare Sam, avevo bisogno di un attore che avesse la capacità di passare da un registro all’altro con facilità, un attore con un’ampia tavolozza emotiva. Il casting ha richiesto molto tempo, ma quando ho visto il provino di Yahya Mahayni l’ho subito riconosciuto come un diamante grezzo. Un attore capace di portare il film sulla schiena!”, lo definisce la regista. Poi, “Personalmente adoro Monica Bellucci e volevo lavorare con lei. Le ho mandato la sceneggiatura e ha amato il ruolo del suo personaggio. Soraya – la platinatissima e volitiva assistente personale dell’artista statunitense – è una donna che esprime quel lato altezzoso e snob che a volte si vede nelle persone che sono lavorativamente affermate e sicure di sé, che sanno come funzionano le cose. Monica è una persona straordinariamente umile e sensibile, ma conosce bene il mondo dell’arte e ha capito subito il personaggio. Mi ha chiamata durante la preparazione per dirmi: ‘abbiamo bisogno di vederci, ho le idee chiare su che aspetto debba avere Soraya’. Sono andata all’incontro un po’ spaventata, ho sempre paura degli attori che decidono unilateralmente come dovrebbero apparire i loro personaggi. Avevo una mia idea chiara di come dovesse essere Soraya e ho portato con me alcune foto di acconciature e costumi che avevo immaginato per il personaggio. Monica ha spiegato la sua visione e corrispondeva esattamente alle immagini che avevo! Eravamo sulla stessa lunghezza d’onda”.
La storia di Sam, naturalmente dapprima personalissima, è anche una storia d’amore, quello per Abeer, fanciulla della borghesia siriana – promessa in sposa ad un funzionario diplomatico, Ziad -, che fugge anche lei dal Paese natale, direzione Belgio: il contratto tra Sam e l’artista del tatuaggio riporta espressamente, come clausola, la richiesta di residenza a Bruxelles per l’uomo siriano, variante destinata a creare un effetto domino sulla trama.
“L’idea per L’uomo che vendette la sua pelle è nata nel 2012. Ero al Louvre di Parigi, all’epoca dedicavo una retrospettiva all’artista belga Wim Delvoye. Là ho visto l’opera d’arte vivente Tim (2006 – 08). Delvoye aveva tatuato la schiena di Tim Steiner, che stava seduto su una poltrona senza maglietta e mostrava il disegno dell’artista. Da quel momento questa immagine singolare e trasgressiva non mi ha abbandonata. Un giorno del 2014, mentre stavo per scrivere l’ennesima versione della sceneggiatura del mio precedente film, Beauty and the Dogs, mi sono invece ritrovata a scrivere per cinque giorni senza sosta la storia de L’uomo che vendette la sua pelle. Dopo l’uscita di Beauty and the Dogs nel 2017 ho ripreso in mano quella prima bozza e ho iniziato a rielaborarla, a definirla fino a ottenere una versione solida. Quindi la sceneggiatura è stato un lungo processo iniziato con un’immagine e sfociato in una ricca storia”, racconta ancora Kaouther Ben Hania del suo film, la cui originalità porta con sé non solo la fascinazione per un soggetto versatile tra dramma, satira, romanticismo e umorismo nero, ma che destreggia con fluidità la tragedia classica, la simbologia cristologica, la cronaca contemporanea, ri-chiamando così l’attenzione sociale su un tema sempre caldissimo, quello delle guerre mediorientali, ma con l’intuizione vivace di un soggetto originale, che parla sì della guerra in Siria, ma senza parlare/mostrare la guerra in Siria, così conferendo un potere d’eco ancor più tonante perché apparentemente “altrove”, nel luccicante e feroce universo dell’Arte, mentre la Siria è proprio l’essenza del film stesso.
L’uomo che vendette la sua pelle esce in sala con Wanted Cinema dal 7 ottobre.
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