TORINO. “Lasciatemi cantare / perché ne sono fiero / sono un italiano / un italiano vero” cantava circa trent’anni fa Toto Cutugno. Quello stesso ritornello lo canta ora, un immigrato regolare somalo, alternando la sua lingua alla nostra, nel finale di Ferrhotel in concorso a Italiana.Doc. Ironica conclusione che l’altro non è poi così diverso da noi? O che l’integrazione comincia con il cantare uno dei motivi del nostro repertorio musicale?
Il documentario della pugliese Mariangela Barbanente si svolge quasi tutto in un albergo in disuso di Bari, a pochi metri dalla stazione ferroviaria, dove vive una comunità somala. Sono in maggioranza giovani, spesso con lo status di rifugiati, scappati dal conflitto che devasta la loro terra e fa strage di inermi. Attendono, ora che hanno un permesso di soggiorno, un lavoro in un’altalena di speranze e delusioni. La nostalgia torna alle volte forte dopo una telefonata alla madre lontana. C’è chi parte per altre destinazioni e chi torna, chi s’inventa un’attività con il sostegno pubblico e chi trova finalmente un lavoro.
Sono loro a raccontarsi e a confidarsi, senza voce fuori campo, di fronte alla videocamera della regista che, sceneggiatrice per alcune serie tv e de L’orchestra di Piazza Vittorio, ha anche firmato Il trasloco del bar di Vezio, documentario sul famoso bar, ormai trasferito, frequentato da dirigenti e impiegati dell’allora Partito comunista.
“Quello che ci interessava raccontare in Ferrhotel era cosa succede nella vita di un rifugiato dopo l’emergenza. Dopo gli sbarchi, i centri d’accoglienza, la conquista del permesso di soggiorno – spiega la regista – Quel limbo, quella zona grigia che precede un’integrazione possibile e spesso disattesa. Raccontare il tentativo quotidiano di avere una vita normale”.
Dalla Somalia in casa nostra all’Etiopia invasa e ferita dal colonialismo fascista del documentario Inconscio italiano, fuori concorso in Italiana.Doc. L’autore, Luca Guadagnino – suo Io sono l’amore, film candidato agli Oscar per i migliori costumi – lo definisce un film-saggio che indaga l’identità italiana e le sue radici avviluppate al ventennio fascista.
Il titolo del film rinvia all’utilizzo di un preciso procedimento di ricerca: trattare il passato italiano come fosse un inconscio intriso di rimosso che va riportato alla luce. Così Guadagnino ricorre, per ottenere una lettura approfondita, alle stimolanti riflessioni di docenti universitari e intellettuali che toccano anche il presente.
Il film si apre con la lucida testimonianza dello storico Angelo del Boca su quanto accaduto durante l’aggressione e l’occupazione dell’Etiopia da parte del regime di Mussolini che, dal 1935 al 1941, causò 300mila vittime etiopi di cui un terzo civili, ricorrendo a stermini di massa e a campi di concentramento, all’impiego di oltre 400 tonnellate di gas e di altri ordigni vietati dalla Convenzione di Ginevra. Una pagina terribile dell’avventura coloniale italiana cancellata o ridimensionata dagli storici più moderati. Ma il documentario si spinge oltre il terreno storico, indagato anche con il contributo di Lucia Ceci, dando voce nella prima parte ai filosofi Alberto Burgio e Ida Dominijanni, agli antropologi Michela Fusaschi e Iain Chambers.
L’altro elemento portante del documentario è la parte finale, cioè l’intensa mezz’ora di immagini di repertorio, provenienti dall’Archivio LUCE, montate sulle note di “Harmonium” di John Adams. Immagini di propaganda fascista che vengono svuotate del loro significato originario – quello di esaltare l’Impero fascista e rafforzare il consenso al regime – attraverso soluzioni tecnico-artistiche come il rallenti, il negativo, lo zoom in o out. Emergono allora con forza le atrocità commesse dagli ‘italiani brava gente’ che invadono l’Etiopia con ingenti forze militari. Scorrono le immagini di bombardamenti aerei, di villaggi dati alle fiamme, di corpi martoriati, di civili feriti e di volti coperti da maschere antigas. L’altra faccia dimenticata di quella impresa ricordata quasi sempre per le opere di urbanizzazione realizzate, come strade e ferrovie tanto decantate ma di fatto finalizzate al trasporto delle truppe italiane. Opere mai inaugurate da Mussolini in persona che mai visitò l’Etiopia durante i sei anni d’occupazione.
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