VENEZIA – L’immensità – brano scritto da Don Backy, Detto Mariano, Mogol, presentata da Don Backy e Johnny Dorelli al Festival di Sanremo 1967 -, è l’opera musicale che dà titolo al film, che fa da colonna portante allo svolgimento in maniera originale – nelle reenactment in bianco&nero interpretate dalle protagoniste Penélope Cruz e Luana Giuliani (nella storia Adriana/Andrea), oltre che essere concetto sommo che s’attribuisce senza tentennamenti al ruolo materno interpretato dall’attrice spagnola, che restituisce una prova da premio (confermando una sorta di naturale inclinazione per le parti che la chiamano in scena come madre, ruolo per cui è già stata Coppa Volpi lo scorso anno alla Mostra per Madres Parallelas). Il film – in Concorso alla Mostra – è diretto da Emanuele Crialese (l’incontro con il regista: leggi qui).
“Ho interpretato così tanti madri, già quando ero molto giovane: con Pedro Almodóvar ho fatto sette film e in cinque interpreto una madre, credo non sia una coincidenza. Ho un senso materno molto spiccato e sono anche affascinata da quello che succede all’interno di ogni famiglia: tutto questo fornisce un mondo infinito da scoprire. Il mio fascino per questo tema, unito al mio forte istinto materno, mi ha sempre guidata; ho sempre desiderato diventare madre sin da una tenera età, è proprio qualcosa che mi appartiene. Ho interpretato sul grande schermo tante madri e per me è ogni volta un grande onore poterlo fare. Questa madre rappresenta tanti tipi di madri contemporaneamente, si può vedere quello che è davvero interiormente, quello che potrebbe essere, quello che vorrebbe essere: è un personaggio sfaccettato, complesso. Era già così viva sin dalla sceneggiatura, sulle pagine: ritenevo questo film molto importante da fare”, spiega Cruz.
È la sequenza al laboratorio scolastico di Scienze a restituire l’essenza del film, quando l’insegnante – mentre gli alunni sono immersi con lo sguardo dentro le lenti del microscopio – spiega il nucleo della cellula, affermando che “dentro ogni cosa ce n’è un’altra nascosta”, informazione a cui Adriana/Andrea ribatte domandando: “ma è più importante quello che abbiamo dentro o fuori?”. La domanda non è solo sottile, guizzante, intelligente, espressione di una giovane mente sensibile e aperta all’esistenza, ma specchio di sé, perché il personaggio cui dà corpo e anima Luana Giuliani è nata Adriana ma si sente Andrea. Questione, questa, nota alla famiglia, nervosamente poco tollerata dal padre (Vincenzo Amato) ma invece con naturalezza, empatia, poesia, spirito ludico e carezzevole amore dalla mamma.
“Lei vuole proteggere i suoi bambini e fa finta non di vedere alcune cose in loro, in realtà vede tutto, soprattutto nel personaggio di Luana, che reciprocamente vede tutto in sua madre. Per anni vivono facendo finta di non vedere cose che in realtà vedono, anche i bambini stessi, anzi parte del film è raccontato dal punto di vista dei bambini, ed è qualcosa di terrificante e che arriva tantissimo agli spettatori la paura profonda che possono vivere i bambini quando in famiglia le cose non vanno bene. È come se si creasse un pensiero costante che non li abbandona mai, una sorta di ritmo che li ossessiona. Credo che il modo con cui si è riusciti a portare sullo schermo quello che questi bambini vedono sia incredibile: il mio personaggio a un certo punto ‘diventa lei stessa un bambino’, come se regredisse perché fa finta di non vedere cose. Noi tutti e quattro insieme – i bambini e io – diventiamo tutti come bambini, per fuggire una realtà così pesante e spaventosa, per poter sopravvivere”, continua l’attrice.
Significativa l’interpretazione dell’esordiente Luana Giuliana (insieme ai fratellini di scena, anch’essi per la prima volta sullo schermo: Patrizio Francioni e Maria Chiara Goretti): un aspetto androgino facilita il “gioco” identitario della trama, e Luana dona – senza restituire la sensazione di un artificio creativo – un personaggio spontaneo, al contempo carico di un’emotività articolata, con una trama e un ordito del sentire interiore tutt’altro che lievi da far convivere e assimilare in sé, seppur mai vessanti da assorbire. “L’incontro con Emanuele è stato quattri anni fa: una persona speciale. Per il personaggio, all’inizio ero un po’ turbata nel farlo ma poi Emanuele mi ha spiegato molte cose ed è stato importante per me rappresentare Emanuele quando era piccolino”, racconta la giovane interprete.
L’immensità è anche la storia di una famiglia degli Anni ’70 della Roma borghese, che resta sullo sfondo panoramico: in scena i conflitti coniugali, quelli giocosi tra fratelli, il falso perbenismo delle scampagnate collettive con fratelli e cugini o delle luccicanti cene natalizie, allegrie e luci dietro cui vivono banali e bassi segreti – come la gravidanza della segretaria del padre -, o la malinconia oscura della mamma. “Credo il mio personaggio non sia affatto quello di una donna pazza, in lei c’è sufficiente follia per poter sopravvivere alla vita in cui si ritrova, la follia che le consente anche di stabilire una relazione con la figlia. Lei si sente intrappolata nella famiglia, nella casa, nel suo corpo, non ha un piano B, un piano di fuga, l’unica possibile è attraverso lo schermo televisivo, che la ricollega a un altro mondo, a quello dell’arte, della musica, della danza, del sogno. Se lei potesse vivere la vita che vorrebbe, se la società glielo consentisse, potrebbe anche essere diversa da com’è: non è affatto pazza, anzi, è oppressa e semplicemente non ne può più; sente di dover quasi fingere ogni giorno davanti ai figli, e questo la fa piombare in una profonda depressione. Ci sono – anche nella realtà di oggi – tantissime donne intrappolate nelle loro case, che fingono di fronte ai loro figli e lo fanno per sopravvivere: sono storie terribili, e questo è solo uno dei temi importanti affrontanti dal film; quello della violenza tra le mura di casa mi ha spezzato il cuore quando ho letto la sceneggiatura”, continua Penélope Cruz.
“Questo è il quarto film con Emanuele” – dice Vincenzo Amato – Lui scrive storie bellissime e l’importanza con lui non è tanto il personaggio quanto l’avventura del fare un film con lui. Poi, io non sono vicino a questo personaggio, come persona, ma non importa: lui ti porta per mano a essere in quel momento quel personaggio. E anche io ho fatto un lavoro sulla memoria: sono sempre stato figlio, adesso sono padre ma i miei genitori sono morti e così ho dovuto fare un viaggio indietro a quando ero figlio appunto, ma facendo il padre, e questa è stata una cosa bellissima, anche se il personaggio era brutto, ma per me era un viaggio pazzesco, nella mente di mio papà, seppur differente lui dal padre che interpreto”.
Emanuele Crialese, che torna dietro la macchina da presa dopo Terraferma (2011), e al suo quinto film con L’immensità, conferma una mano in stato di grazia per la regia, per esempio ricorrendo ad alcuni plongée, come quello simbolico d’apertura: sulla terrazza condominiale Adriana/Andrea tira fili di tessuto tra le antenne dei ripetitori per rivolgersi poi verso il cielo, alzando le braccia, e invocando un “mandatemi un segnale”, perché, come poi dirà alla mamma, dopo aver fatto una congestione da ostie della comunione, “Dio – quindi il cielo – mi deve fare un miracolo … Tu e papà m’avete creata male e tu non hai il potere per aggiustarmi”, così Adriana cerca un altrove superiore, a suo modo.
“Per me, Emanuele era da sempre il mio regista dell’anima. E’ stato importante perimetrare il senso di questo racconto. La prima cosa capita insieme, e per me l’aspetto di assoluta contemporaneità di questo film, è che non ha a che fa con l’identità transgender ma con una affermazione sull’identità. Il suo cinema è di migranza, perché il suo cinema è quello della libertà. Nella migranza ha lavorato sul soggetto donna migrante. Io ho una storia non tanto differente da Emanuele: credo che i tempi siano cambiati, si perde a volte il tema del neo liberismo delle identità, e il film dice che tu non scegli quello che sei, ma lo scegli in un nucleo, in questo caso nel materno. La potenza del film è il punto di vista, che indaga la realtà con la ricchezza che ci fa fare un passo avanti: il suo sguardo qui punta verso la famiglia, corpo costitutivo. Il film restituisce la non solitudine dell’identità”, dice Francesca Manieri, co-sceneggiatrice.
Crialese, ancora, sceglie e vince anche sulla via del coraggio estetico – oltre che simbolico e metaforico, perché L’immensità vive inoltre, come accennato, di ripetuti inserti in bianco e nero, reenactment appunto di storiche sequenze della televisione/musica italiane, prime su tutte quelle che omaggiano Raffaella Carrà, ma anche, appunto, il brano che dà titolo al film: l’autore sceglie di mettere in scena Penélope Cruz più di una volta in questa modalità, la prima quando prepara la tavola di casa con i suoi tre bimbi cantando e ballando Rumore – qui a colori, ma poi anche portandola a calarsi nei panni di una sofisticata Zanicchi, dando voce e interpretazione al brano Love Story (Grazie amore mio), ripreso poi anche da Luana Giuliani nel finale, qui di tutto punto al maschile, dinnanzi “al pubblico di un tempo” che intona: “grazie amore mio di aver sfidato tutto il mondo insieme a me”.
L’immensità di Crialese è, infine, anche un film circolare, dal filo d’apertura che Adriana/Andrea fa correre sulla terrazza s’arriva allo stesso che, in forma grafica, bianco su fondo nero – disegna un labirinto, un punto di contatto, un capo che cerca la propria coda – giungendo ai titoli finali, affresco visivo e sonoro, su cui risuonano per esteso le armonie musicali del brano portante.
L’immensità esce al cinema il15 settembre 2022.
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