Kore-Eda e il ‘Mostro’ dentro e fuori di noi

Il regista Hirokazu Kore-eda torna a Cannes con Monster, il suo primo film ambientato in Giappone da Un affare di famiglia, Palma d'oro nel 2018


CANNES – Chi è il mostro? È la domanda che ci si chiede insistentemente lungo tutto il corso del nuovo film di Hirokazu Kore-eda, l’apprezzato regista giapponese che torna per l’ennesima volta a Cannes con un lungometraggio in concorso, Monster, un film girato nel proprio paese d’origine a oltre cinque anni dal successo di Un affare di famiglia, vincitore della Palma d’oro nel 2018. Nella nazione che ha inventato il genere del “monster movie”, la parola che dà il titolo al film ha un valore che non può essere tralasciato anche quando si parla di una storia molto più intima. In questo caso “il mostro” non è una lucertola gigante che mette a ferro e fuoco una città, ma qualcosa di molto più sfuggente e ambiguo che si radica nella cultura e nell’educazione giapponese. Qualcosa di così piccolo da insinuarsi nella mente anche di un bambino.

Come ha fatto in tutti i suoi film precedenti, compreso l’ultimo Broker, presentato l’anno scorso a Cannes, Kore-eda torna ad occuparsi del tema della famiglia, ma lo fa in un modo che per molti sarà inaspettato. Il film, infatti, segue una struttura complessa in tre atti ed è privo della consueta ironia che caratterizza le storie del maestro, lasciandosi andare a una visione sotto un certo punto di vista molto più spietata del mondo. Il motivo è che, a differenza di quasi tutti i suoi lavori precedenti, Kore-eda si affida qui alla sceneggiatura scritta da un altro autore, Yuji Sakamoto.

“Sono stato contattato per questo progetto già nel 2018. – dichiara il regista – La divisione in tre parti era già presente e ho pensato che fosse qualcosa di rilevante perché coinvolge gli spettatori e li mette in relazione con questi personaggi alla ricerca di un mostro che non esiste. Ho lavorato tanto tempo nel cinema, Sakamoto nella tv, sono ambiti diversi ma siamo interessati alle stesse tematiche: le vittime e i colpevoli, la famiglia e l’amicizia. Avrei voluto essere in grado di scrivere questa storia da solo. È stata una collaborazione preziosa e gioiosa”.

Difficile parlare della trama di questo film senza compromettere l’intento di un autore che, evidentemente, costruisce l’intera narrazione su un costante senso di spaesamento. La storia inizia parlando di una madre vedova apprensiva e iper-protettiva, che davanti ai comportamenti sempre più strani del figlio, individua la colpa negli atti violenti di un suo maestro di scuola, arrivando a compromettere la sua carriera. Come in un puzzle dai colori sfumati, il punto di vista della madre viene bruscamente interrotto lasciandoci con tantissime domande in sospeso. La vicenda ricomincia da capo e questa volta il protagonista è propri il maestro, da cui occhi vedremo la realtà in un modo completamente diverso. Per ogni pezzo del puzzle che viene messo al suo posto, altri sembrano perderlo, fino a quando il testimone non passerà definitivamente al bambino. La storia raccontata dal suo punto di vista chiarirà tutte le zone d’ombra, disegnando un quadro struggente e dalla disarmante delicatezza.

“Stavo guidando la mia macchina, quando mi sono fermato a un semaforo dietro a un trattore. – rivela lo sceneggiatore Sakamoto, parlando della genesi del progetto – Quando si è accesa la luce verde, il trattore non si è mosso, io non capivo perché. Mi domandavo che stesse succedendo, poi alla fine ho visto che stava attraversando una persona in carrozzina. Mi sono sentito molto in colpa e ho capito che una storia è raccontata anche da quello che non vedi”.

Chi è il mostro? Dicevamo. Un madre oppressiva ma amorevole, un maestro fragile e ingenuo, una preside laboriosa ma subdola o un bambino che teme di avere un “cervello di maiale”? La verità è impossibile da sapere, o forse non è così importante. Ciò che veramente conta sono le emozioni dei protagonisti, in particolare quelle dei due bambini che nell’ultima parte del film s’impossesseranno della narrazione, raccontando di un’amicizia toccante, un amore di una purezza che solo i più piccini riescono a vivere, nel tentativo di sconfiggere mostri reali che li opprimono: il lutto, l’abbandono, il bullismo e la violenza domestica.

Seppure arrivino solo nel finale, dopo essere stati sfiorati e visti per oltre un’ora dal filtro malsano degli adulti che li circondano, i piccoli Minato ed Eri sono il vero cuore pulsate del film. Come di consueto Kore-eda si dimostra un eccellente direttore della recitazione dei bambini, regalandoci due interpretazioni che ci ricorderemo per tanto tempo. Grazie anche all’uso magistrale delle musiche del Maestro Ryuichi Sakamoto, le ultime composte prima di morire, che riempiono di significato i tanti silenzi e le tante ambiguità del film.

Così come spesso accade nelle opere del regista giapponese, dalle situazioni più tragiche arriva sempre una piccola scintilla che ci fa credere ancora nella bellezza del mondo, anche se spesso è difficile da vedere. “Questi bambini hanno un forte desiderio di rinascere in qualcosa di diverso, lo si vede nella scena in cui giocano a interpretate gli animali. – dichiara Kore-eda – La reincarnazione è qualcosa che dà loro molta speranza. In una realtà così ricca di divisioni e intolleranza, credo che sia il loro modo di interrogarsi sul mondo”.

 

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18 Maggio 2023

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