Ha una vaga somiglianza con Nanni Moretti, con la barba folta e quelle idiosincrasie mai tenute a bada, il ragazzo-padre del primo film da regista di Kim Rossi Stuart, Anche libero va bene. La storia di un ragazzino di 11 anni che sogna di giocare a calcio (da centrocampo ma… anche libero va bene) mentre si allena per le gare di nuoto per far contento suo padre. Vive con lui e con la sorella di poco maggiore ma senza la mamma, una donna fragile e sentimentalmente instabile che va e viene dall’appartamento invaso dal disordine di questa famiglia ormai non più tanto atipica. La sceneggiatura scritta dall’attore con Linda Ferri, Federico Starnone e Francesco Giammusso, è riempita di vita vera dalla presenza del giovanissimo interprete Alessandro Morace, più attore dei suoi “genitori”, lo stesso Kim e Barbora Bobulova. Adesso il film, che ha subìto un lungo stop a causa del grave incidente di moto occorso al trentaseienne Rossi Stuart, andrà a Cannes, nella Quinzaine, mentre nelle nostre sale arriva con 70 copie, come annunciano alla 01, dal 5 maggio.
Perché per il suo esordio nella regia ha scelto di parlare dell’infanzia?
Forse perché volevo fare le cose con ordine e siccome mi sentivo un regista-bambino ho voluto fare un film-bambino. Poi c’era la voglia di tornare a guardare il mondo con gli occhi dell’infanzia. Siamo partiti proprio da lì, da un’infanzia né agiata né spensierata, ma problematica a causa di questi genitori che non considero cattivi ma solo complessi e contraddittori.
Cosa l’ha convinta a scegliere Alessandro?
L’ho cercato a lungo, in molte scuole tra la periferia e il centro, in tante piscine e campi di calcio. Alessandro, nella sua normalità, sembrava che avesse delle cose nascoste e voglia di tirarle fuori attraverso il nostro gioco.
Considera i due genitori del film immaturi e incapaci di essere veramente genitori?
Ho sempre cercato di amarli e non considerarli negativi. Non mi sento di definire la madre una casalinga annoiata, una persona superficiale. Penso che sia una persona che ha una nevrosi profonda e quando cade nel suo baratro non può fare a meno di scappare. Renato è più decifrabile nelle sue debolezze, nell’essere oppressivo con il figlio, nel volerlo spingerlo a tutti i costi a vincere, a essere migliore. Ma non mi sentirei di dire che questa è un’infanzia infelice, solo un’infanzia dura, fatta di solitudine e responsabilità precoci.
Quanto ha influito l’aver lavorato con un regista come Gianni Amelio, che sul tema della paternità ha costruito tutto il suo cinema?
Il ladro di bambini è stato uno dei film che più mi hanno colpito in assoluto. Le chiavi di casa, ovviamente, è stato un passaggio importante, anche perché l’ho girato che avevo già scritto la prima stesura del mio film e in qualche modo ho spiato il modo di lavorare con i bambini che ha Gianni. Ma le due esperienze sono molto diverse: lì non c’era una sceneggiatura ma il film veniva costruito sulle invenzioni estemporanee di Andrea Rossi, qui invece era tutto scritto e qualche volta bisognava smantellare la piccola corazza di attore che Alessandro aveva ben presto costruito su di sé: sul set, gli elettricisti, lo chiamavano Robert De Niro.
La bestemmia che lei pronuncia nel film è una provocazione?
In nessun modo. E’ una bestemmia profondamente cristiana: un uomo si trova sull’orlo dell’abisso, ha perso la fiducia in se stesso, nell’esistenza, tutto gli crolla addosso: il suo è un grido di dolore. Ma è proprio quel dolore che riavvicina il figlio al padre.
Lei ha deciso solo all’ultimo di recitare nel film.
Non avrei voluto recitare perché volevo un’esperienza di regia pura. Ma l’attore che avevo scelto si è dileguato all’ultimo momento e così mi sono trovato a fare il triplo salto mortale. Forse è stato un bene: ho avuto meno tempo di pensare.
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