TORINO – Tre film con Bob Altman, ma tre film che fanno una carriera. Nel primo, I compari (1971), fu scelto così, senza neanche un provino e aveva poco più di vent’anni, al terzo, il mitico Nashville, vinse addirittura un Oscar per una canzone, I’m easy, una canzone che è difficile dimenticare se l’hai ascoltata anche solo una volta. Lui la cantava accompagnandosi con la chitarra, con la faccia d’angelo e lo sguardo dolce e seduttivo, un po’ smarrito, e tutte le donne si scioglievano… Oggi Keith Carradine è un sessantenne atletico, si è risposato, proprio qui a Torino, cinque anni fa, con una modella di 25 anni più giovane, ha da poco lavorato in Cowboys and Aliens. In questi giorni è ospite del Festival di Torino che ha dedicato a Bob Altman una retrospettiva degna del suo talento prolifico: oltre 40 film dal 1966 al 2006, l’anno dell’Oscar alla carriera, a parziale riparazione di un Oscar per la regia mai vinto. E poi molto altro, serie televisive e documentari. Nei Compari, alias McCabe & Mrs Miller, storia di un giocatore e di una prostituta (erano Warren Beatty e Julie Christie), il cowboy Carradine finiva male, cadeva (per davvero) in un fiume gelato. Adesso ricorda quell’esperienza, che gli costò quasi una polmonite, con tenerezza.
Qui a Torino ha l’onore di rappresentare la sterminata famiglia degli interpreti di Altman, regista di film corali e affollatissimi. Si sente l’attore tipico di quel cinema?
Non proprio. Ma è vero che Bob ha lavorato con una serie di attori, un po’ come faceva John Ford con cui aveva recitato mio padre. Aveva l’abitudine di chiamarti più di una volta, perché quando avevi capito il suo modo di lavorare, era tutto più facile. Per lui poi gli attori erano prima di tutto amici ed esseri umani, cercava l’essenza, la natura profonda della persona.
Qual era il suo metodo di lavoro?
Non era uno che dirigeva nel senso di guidare la performance, al contrario. Ti dava da leggere lo script, raccomandandoti di non fare programmi e di non restarci attaccato. Diceva: cerca di capire chi è il tuo personaggio. In Nashville, per esempio, il personaggio mi creava non pochi problemi. Era un ragazzo egoista, donnaiolo, che prendeva la sua energia dalle donne, non mi piaceva per niente. Ero molto giovane, avevo appena 26 anni, e non riuscivo a prendere le distanze… Nella scena in cui suono I’m easy non mi sentivo per niente a mio agio, anzi mi facevo un po’ schifo. Bob mi disse solo: ‘va bene così, non ti preoccupare’. Sapeva che ero a disagio ma era esattamente quello che voleva. Perché il personaggio è in realtà uno che non si piace.
Che rapporto aveva con gli attori?
Li amava. Pensava che in loro ci fosse un grande mistero, qualcosa di magico. Creava un ambiente per far succedere le cose. Era un tipo intenso, ma mai arrabbiato e mai meschino. Poteva essere triste, nei suoi occhi balenava a volte un demone. Ma voleva che il lavoro fosse piacevole, gioioso, tanto che spesso si faceva una canna. Ricordo che ci faceva vedere i giornalieri: Julie Christie non voleva, perché non li sopportava. Io, la prima volta, ero terrorizzato, mi vedevo brutto, troppo magro. Ma lui mi disse: ‘non cercare di cambiare le cose, devi semplicemente essere. Just be’. Questa è la sua più grande lezione.
Fu lei a scrivere “I’m easy”, la leggendaria canzone di “Nashville”.
Bob chiese a tutti noi di scrivere una canzone, io l’avevo già composta. Nashville sembrava un film sulla scena musicale folk, ma era in realtà un film sull’America e su tutto quello che c’era sotto traccia, qualcosa di più oscuro e complesso delle apparenze.
Com’è stato vincere l’Oscar per quella canzone?
Non sapevo di aver vinto e neppure me lo aspettavo. Ero l’outsider di turno, un ragazzo qualsiasi che aveva scritto una canzone. Quando ho sentito che avevo vinto mi è sembrato di vivere fuori dal mio corpo, ho fatto un’esperienza incredibile. Ricordo di aver visto me stesso salire sul palco e dire qualcosa, mentre Angie Dickinson e Burt Bacharach mi consegnavano la statuetta e vedevo mio padre e la mia ragazza seduti tra il pubblico che applaudivano.
Come la prese Altman?
Il film aveva 12 nomination, ma io fui l’unico a vincere, però Bob fu carino, per niente deluso. Era felice per me e io ero felice per “noi”.
Perché dopo “Nashville” non avete più lavorato insieme?
Non mi ha più chiamato, ma non so perché. Una sola volta mi cercò per un lavoro televisivo, ma io dissi di no, perché sono un idiota. Che peccato! Però abbiamo fatto questi tre film molto belli, I compari, Gang e Nashville. Soprattutto Nashville che fa parte della storia del cinema americano… Un grande successo, soprattutto di critica, e Bob era il burattinaio.
Cosa pensa quando si rivede in questi film?
Innanzitutto penso che sono invecchiato. Il bello del teatro è che non ti puoi rivedere, mentre al cinema sì. Poi penso che è Bob che mi ha dato la mia carriera. I compari è stato fondamentalmente il primo vero film. All’epoca non ero pienamente cosciente di quello che stavo vivendo e forse è stato meglio così, essere ingenuo, non rendersi conto. Gli attori sono strane creature, con un grande narcisismo e un bisogno di essere guardati che corrisponde a una enorme fragilità. I migliori registi questo lo capiscono e lui lo capiva. Mi ha rassicurato e mi ha dato il permesso di essere un attore.
C’è un erede di Altman nel cinema americano contemporaneo?
Sicuramente Paul Thomas Anderson, quello di Magnolia.
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